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Di troppi libri morirò

Ecco, lo so, mi farò odiare – odiare – per ciò che sto per scrivere, ché già scrivendo qualcosa mi contraddico subito, perché il fatto è che io sento l’esigenza di sottrarre. Come lettore, dico, sento l’esigenza di avere intorno a me meno libri. La questione è: troppi libri nelle librerie, troppi libri scritti, troppa gente che scrive, troppi libri che potrebbero anche non essere scritti, ché niente cambierebbe qualora non fossero stati scritti… Ecco, mi state odiando, lo so: però la riprova è prendere un vero libro e leggerlo. Un buon modo per accorgersi delle differenze. Prendiamo un libro di Philip Roth: può essere senza speranza, può raccontare una storia che magari non è il massimo dell’allegria; però, da lettore, ci prendi gusto. Perché va detta bene questa cosa e va sottolineata la differenza che c’è tra la sensazione che ti restituisce l’intreccio, la storia, che può essere tristissima, d’accordo, e la sensazione da puro lettore; quella, cioè, che ti restituisce la lettura in sé e che va oltre il puro intreccio e riguarda specificatamente la scrittura. Quando la scrittura funziona, il vero lettore gioisce, prova piacere, quasi se ne sbatte del destino dei personaggi – no, forse sbattersene è troppo – ma il loro destino è mitigato dallo stile, è giustificato dallo stile, perché il fatto è che le storie tristi ben scritte mettono allegria. A mettere davvero tristezza sono le storie tristi scritte in maniera triste. Ché le differenze ci sono e vanno rimarcate: non è tutto indistinguibile. Tu vai in una di quelle megalibrerie tanto in uso oggi e vedi affiancati libri che in realtà sono diversissimi uno dall’altro, ti fanno credere che uno vale l’altro, ma mica è così! E allora io voglio tante librerie separate, ognuna per un singolo libro o almeno autore. Voglio una libreria tutta per Celati e una per Ellroy, o quanto meno librerie tematiche, reparti tematici, dove per tematica non basta la discriminante “Narrativa”, e magari divisa per secoli o per paesi. Non lo so, una nuova classificazione che tenga conto delle dovute differenze e peculiarità di ogni libro e una cosa del genere potrebbe essere fatta soltanto da un libraio che prima abbia letto tutti i libri che intende vendere, decidendo anche quali estromettere dalla sua libreria e dicendo no ai distributori e ai commercianti da strapazzo. Poi per esempio capitano libri come La vita breve di Onetti e allora davvero ti chiedi cos’è un libro, se è questo o l’altro o lo sono entrambi, lo sono tutti, ma se lo sono tutti, se tutti sono libri, se affinché si abbia un libro è sufficiente che più pagine siano attaccate, rilegate, che ci sia un titolo, una copertina colorata o bianca – che tanto sempre colore è – la differenza sta nella scrittura. Sembra un’ovvietà, eppure non è così, quasi non ce ne rendiamo più conto. Raccontami una buona storia, si dice. E io dico: raccontami bene una storia, qualunque, basta che me la racconti bene, con le parole giuste, fammi sognare, fammi sentire il suono delle parole, mettici ritmo, spiazzami, portami su e poi giù, non farmi restare a galleggiare nella melma, non voglio più sapere che ore sono e chi suona al telefono; non voglio più sapere niente: solo questa storia voglio sapere, per favore, riempimi con questa storia che mi sento un sacco vuoto (un “sacco” anche nel senso di “tanto”). E potrei non finirla più, non entrare mai più in una megalibreria, o entrare per portar fuori da lì tutti i libri, stanarli, liberarli, riscattarli. Darne uno a un amico e uno a un’amica, alla mamma, alla zia, all’amata che non sa di essere amata, alla non amata che crede di essere amata – stando bene attento a non imbrogliarmi, a non invertire i libri, ché poi sono guai. Portarne uno dal medico, uno dal macellaio, uno al bar. Uno al bar. Certi libri non sono mai entrati in un bar, questo è il guaio. Ci sono magari entrati gli autori mentre li scrivevano, ma loro, nella loro vita di libri, non sono mai entrati al bar. I libri veri, dico, quelli che lo sono a metà, magari sì, ci sono entrati, ci entrano, ci stanno entrando e stanno facendo le loro ordinazioni. Allora la questione, a volerla sintetizzare in maniera esemplificativa,  sta tutta nel cosa ordinerebbe al bar un vero libro e cosa invece ordinerebbe un non libro. In ciò che sceglierebbero sta la loro sostanziale diversità.

Gianluca Minotti

Letture estive: ciò che nessuno mai vi dirà sul leggere in spiaggia.

LETTURE ESTIVE:

ciò che nessuno mai vi dirà sul leggere in spiaggia e su altre cattive abitudini

L’estate, si dice, è la migliore stagione per leggere. Si ha più tempo libero e siccome il tempo libero non può restare libero e bisogna pure occuparlo in qualche modo, ecco che si legge di più. In città: prima, durante e dopo il riposino pomeridiano; al mare: sdraiati sul lettino (o allettati sulla sdraio), quando non si sa cosa fare s’infila sbadatamente una mano nella borsa di tela arancione per prendere quel libro acquistato giusto il giorno prima di partire, insieme alle creme solari e alle ciabatte da mare, nello stesso reparto, con lo sconto del venticinque per cento ma di marca buona, addirittura L’Oréal. Spalmare con cura per evitare scottature. Ora, io dovrei smetterla una volta per sempre di fare dell’ironia su un argomento così serio come quello dei libri, ché ognuno è libero di leggere o meno e se leggere vuole, di leggere ciò che gli pare, aggrada e piace. Per cui non do nessun consiglio di lettura: ne sono pieni giornali, siti internet, rubriche televisive: tutti a parlare di libri e tutti a dar dritte e rovesci, e che fai, non leggi l’ultimo thriller che ha spopolato in America? Solo che nessuno ci dice che in America quel libro l’hanno letto l’inverno precedente e non l’estate, perché un conto è un libro invernale un altro è un libro estivo. Provare per credere. Si prenda un libro tipicamente invernale, non so, Il dottor Zivago – notoriamente un titolo americano contemporaneo – e lo si porti al mare con la famiglia: tutta la neve si scioglierà in meno di mezz’ora rivelando l’artificiosità del meccanismo narrativo. Come un castello di sabbia appunto. Ma perché, piuttosto che leggere, nessuno consiglia a coloro che vanno al mare di fare dei bellissimi castelli di sabbia con i bambini? Fare castelli di sabbia è meglio di leggere, l’importante è avere con sé dei bambini. Coloro che ancora non ce l’hanno, farebbero bene ad affrettarsi a farli ché siamo già a fine luglio e c’è rimasto poco tempo per balneare.

Una volta un amico mi disse che leggere al mare equivale a non leggere il mare e che leggere in città equivale a leggere la città. E leggere in montagna?, gli chiesi. Non lo sapeva. Lui non era mai stato in montagna ma una volta al mare aveva letto un libro di un ragazzo di città che si reca in montagna e che trascorre così tanto tempo a leggere che a un certo punto è sorpreso dalla notte e non sa più tornare indietro. In montagna, concluse il mio amico, bisogna stare attenti e non distrarsi, pena smarrirsi o, ancor peggio, scivolare e cadere in un crepaccio.

Quando leggere non fa bene, insomma, ché nessuno lo ammetterà mai, salvo poi verificarlo di persona: ho visto signore ustionarsi al sole per colpa di certi romanzi. E questo nonostante le suddette creme e protezioni che proteggono fino a una certa esposizione, dopo la quale, è risaputo, anche la carta brucia: a 232,78 °C.

Gianluca Minotti

Conseguenze del blocco del traffico sulla lettura

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi dico che il blocco delle auto, le giornate a piedi son fatte per incentivare la lettura. Almeno nelle città come Frosinone dove non ci sono molte possibilità. Nessun evento concerto incontro organizzato giacché tanto se c’è il blocco delle auto la gente non ci andrebbe, come ci arriverebbe infatti in questi luoghi senza neanche i mezzi pubblici potenziati che se ne aspetti uno rischi di attendere mezzora e allora quella mezzora l’unica cosa che puoi fare è leggere, ma tra leggere per la via e leggere a casa seduto in poltrona, meglio la poltrona. Ed ecco che “leggere” assume una connotazione negativa. Leggi per pigrizia, leggi perché non c’è niente di meglio da fare, perché magari quando c’è il blocco del traffico non ti funziona manco l’adsl, cade la connessione e il digitale terrestre fa le bizze e ieri hai dimenticato di fare la spesa e hai poco da mangiare e mentre ti aggiri per casa, vestito di tutto punto perché è domenica, ti viene in mente che infilato sotto il cuscino della poltrona hai quel libro iniziato giusto due settimane fa. Il giorno del precedente blocco. Quando poi al blocco delle auto sommi l’introduzione dell’ora legale, ecco che salta tutto. È l’una ma sono le due e magari se riprendi in mano il libro che eri arrivato a pagina 63 ti ritrovi a pagina 73 senza possibilità di tornare indietro con anche il protagonista che magari non sa bene che fare perché è domenica anche da lui e non può uscire e han messo l’ora legale e sì, è primavera, voleva andare al mare, aveva puntato la sveglia alle otto, ma dell’ora legale s’era dimenticato e sono ormai le nove e il blocco inizia proprio alle nove e chiama gli amici, ma gli amici son tutti a leggere e lui esce a piedi cammina la città e gli pare di essere l’unico sopravvissuto dopo un disastro nucleare o non meglio specificato, una dissipazione del genere umano come nel libro di Morselli.

Io per esempio ho qui l’ultimo di Aldo Nove, la vita oscena, e Perturbamento di Thomas Bernhard, titoli che contribuiscono a rasserenare l’animo, eppure trovo la forza di non leggere, per un giorno leggere appena e uscire, fare due passi, tanto per sentirmi meno solo, dell’isolato, con la conseguenza di ritrovarmi appunto isolato, visto di mal occhio dai miei vicini quando, alzando lo sguardo dalle loro poltrone in cui sono sprofondati a leggere, mi vedono passare, solo senza un libro da leggere, un libro da portare a spasso per compagnia. Io che una volta di notte stavo a piedi e la polizia mi ha fermato e mi ha perquisito pensando fossi un corriere della droga che fa la spola tra Frosinone alto e Frosinone basso e nella borsa che porto a tracolla ha trovato solo libri e un’agendina e un pacchetto di sigarette e una matita di quelle dell’ikea e nonostante questo mi hanno interrogato, dove andavo e cosa facevo e di dov’ero, di Frosinone alto o di Frosinone basso, e io ho risposto a tutto, ero preparato, ed ero lontano da casa almeno due chilometri e quando si sono ritenuti soddisfatti, m’hanno sì ridato i libri ma mica mi hanno chiesto se volevo un passaggio benché io avessi pensato di chiederglielo, per una volta salire su una macchina della polizia per sentirmi un delinquente. Ma uno che cammina per strada di notte quando non c’è il blocco del traffico e magari legge anche o porta con sé materiale ad uso di lettura non è un delinquente, tutt’al più un emarginato socialmente disturbato. Ora però esco, benché sia tutto chiuso, anche i bar, tutto chiuso, anche i parchi pubblici, chiusi, e la villa comunale, chiusa, e le panchine, incatenate, e i marciapiedi, ingombri di auto parcheggiate, giacché le auto da qualche parte devono pur stare e se non possono circolare sulle strade, stanno ferme sui marciapiedi, nessun blocco le può smaterializzare, piuttosto, e lo so, quando alle 18 il blocco terminerà, a smaterializzarsi saranno i libri e tutto si normalizzerà: la circolazione ritornerà normale e io riprenderò, pacificato,  a leggere.

Gianluca Minotti

Sul perché certi libri proprio non finiamo di leggerli

 

IL LETTORE

(NON mp3)

IMPERFETTO

 


Io sono un cattivo ragazzo: leggo più libri insieme e non sempre riesco a finirli. Tempo fa questa cosa mi faceva sentire in colpa, come mancassi di rispetto agli autori; oggi, invece, mi fa sentire ugualmente in colpa. Ma non verso gli autori. Verso me stesso. Potrei fare un elenco di libri mai terminati, ma ve lo risparmio. Vi dico solo, per esempio, che non ho mai finito Anna Karenina. Mi mancano poco più di cento pagine, o meglio: sono anni che lo leggo e rileggo fino a un certo punto, sempre, rigorosamente lo stesso, e poi mi fermo. Non perché non mi piaccia, tutt’altro: mi fa impazzire, ci perdo la testa, non capisco più niente, mi viene quasi da parlare in russo, mi faccio crescere la barba e indosso pellicciotti, però poi mi fermo. Mi fermo prima che sia troppo tardi. Prima, appunto, che arrivi la fine. Insomma, credo di comportarmi così con Anna Karenina perché mi rifiuto di pensare che possa finire – non voglio che Anna muoia, va bene? – giacché, se è vero come si dice che certe storie non finiscono mai, allora, siccome io sono, sì un cattivo ragazzo, ma tutto sommato coerente, le lascio sospese. Tutto questo per dire che a volte i libri che non terminiamo non sono soltanto quelli che ci annoiano, ma anche quelli che più entrano in noi, per cui, nel nostro procrastinarli c’è come il tentativo di non esaurirli. Sapere che magari un giorno, quando proprio non ci resterà più niente da aspettare, sperare, nulla in cui credere, pochi spiccioli per fare granché e pochi treni da prendere (per dove?, ci aspetta qualcuno?), be’, avremo sempre la nostra cara Anna a cui attingere. Che, espressa così, pare una bella cosa; ma, ripeto, siccome l’Anna di cui stiamo discutendo non fa proprio una bella fine, siamo in realtà dei sadici. È dal suo sacrificio, dal doverne constatare la morte che noi auspichiamo di riappacificarci con la vita.

È per questo che mi sento in colpa verso me stesso. Al punto che sarebbe meglio, invece di iniziarne di nuovi, se terminassi i libri cominciati. Certo, certo, sarebbe meglio, ma come si fa? Perché poi accade anche un’altra cosa: certi libri, certi bei libri – e anzi, più fanno questo scherzo, più sono ottimi libri – rimandano ad altri libri, raggiungono l’apice proprio quando ne richiamano altri, a volte citandoli direttamente, altre suggerendoli. Magari non ti fanno proprio il nome e cognome dell’autore, non ti scrivono titolo dell’opera ed editore, però ti fanno accendere una lampadina e ti distolgono. Pare una contraddizione constatarlo, ma, ripeto, è così, e se mentre leggi un libro quello è perfettamente concluso in se stesso, esclude tutti gli altri, finanche esclude la vita, che tu te lo leggi dall’inizio alla fine in due ore, seppure non sembrerebbe, non è un buon libro, non lo è affatto. Simula, fa finta di esserlo, però non lo è. E quando te ne accorgi? Non subito te ne accorgi. Te ne accorgi con il tempo. Perché poi a quel libro iniziale, dopo che hai fatto tutto il tuo giro, a quello che inizialmente ti aveva distolto, tu ci torni, mentre a quello apparentemente concluso in se stesso, no.

Ora non so se avete tenuto il filo di questo sragionamento, però se io sono scontento del fatto di non riuscire a finire certi libri, è anche perché sono consapevole di essermi infilato in un gioco di rimandi dal quale rischio di non venire fuori.

Gianluca Minotti