Archivi categoria: Letture in corso

Viaggi, dubbi, scoperte

Francesca Pacini

La mia Instanbul. Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d’Oriente.

Edizioni Ponte Sisto, 2013

€ 14,00

 

Di solito leggo libri scritti da uomini, preferisco lo stile, l’uso delle parole, le suggestioni, le metafore, i temi. Questa volta sto rimanendo incantata dallo stile fluido di Francesca Pacini, dalla scelta che fa delle parole, dal suo modo di porsi dei dubbi e dalla sua costante ricerca della verità, dell’essenza.

Instanbul, ma anche altri posti in cui è stata, sono per lei la scintilla per un viaggio di conoscenza di sè e dell’umano in generale, ricco di sorprese e anche di risposte non scontate.

L’atteggiamento della Pacini, quello cioè di accogliere e meditare sul “diverso”, spesso rendendosi conto delle analogie tra mondo occidentale e mediorientale, è quello che ogni viaggiatore (non turista) dovrebbe adottare.

Mary Zarbo

Roberto Bolaño, 2666: lettura in progress

Tre anni fa la lettura di Roberto Bolaño diventò una lettura condivisa grazie a un gruppo su facebook, Quelli folgorati da “2666”.  Nel giro di pochi giorni ci furono più di novanta iscritti, che so non essere una cifra astronomica, ma è pur sempre dignitosa.

Da oggi su Literaid intendiamo riproporre gli articoli che vi sono apparsi, con relativi commenti e discussioni. Forse perché anche a distanza di (non) tanto tempo, sentiamo l’esigenza di tornare a leggere Roberto Bolaño e di spingere chi di voi ancora non l’ha fatto a intraprendere il viaggio che sono i suoi libri. Una magnifica metafora della dispersione di una generazione sudamericana perduta tra sogni rivoluzionari e spietate repressioni: questo sono i libri di Bolaño.

2666

Scambi (Prima sezione: “La parte dei critici”.)

Mi fermo a pagina 126 perché mi viene alla mente, prepotente, un’immagine: quella di una serie di binari che s’intersecano, senza che si riesca bene a individuare dove propriamente siano gli scambi.
Voglio dire che fino a questo punto mi pare di poter dire che il romanzo di Bolaño ha subìto almeno tre variazioni, senza che sia possibile capire esattamente dove si sono verificati questi spostamenti, in che punto, a che pagina.
L’incontro dei quattro protagonisti (Pelletier, Espinoza, Morini, la Norton) con i romanzi dello scrittore Arcimboldi, rappresenta il primo elemento che dà il via alla storia.
Un primo cambio lo abbiamo quando i rapporti tra Liz Norton, Pelletier ed Epinoza assumono un’importanza centrale, e di conseguenza Morini (ma lo stesso Arcimboldi) resta nell’ombra.
Il terzo spostamento si verifica al momento dell’incontro con il pittore.
Qui anzi succede una cosa stranissima: improvvisamente su Morini, su ciò che il pittore gli dice all’orecchio, sulla sua scomparsa – seppure solo di qualche giorno – si addensano misteri, e la storia pare voler scivolare ancora da un’altra parte.
Ora, seppure è vero che questi spostamenti, variazioni, accadono in molti romanzi, mi pare di intuire che qui, però, essi succedono in maniera del tutto diversa.
Non so bene spiegare questa cosa, è una sensazione: però mi sembra che nel libro di Bolaño tutti gli spostamenti successivi sono già contenuti nei sintagmi precedenti. Già dal’incipit, forse. Perché quella di “2666” pare essere una narrazione costruita senza soluzione di continuità.
E questo nonostante le cesure del paratesto, nonostante i paragrafi e la divisione del libro in cinque diverse parti.
E se è così, se la narrazione restituisce l’illusione di qualcosa che prende forma da sola, che può cambiare strada in qualsiasi momento, tutto questo, che pure sarà il frutto di una struttura voluta dall’autore, accade grazie alla scrittura, per mezzo di essa, in essa.
Per questo dico che forse tutte le possbilità successive della storia sono già contenute nelle frasi scritte in precedenza.
O meglio: ogni frase, ogni proposizione, dice se stessa e nello stesso tempo fa da fondamenta a ciò che verrà dopo.
Per questo è difficile individuare i punti di svolta della narrazione: perché se uno si mettesse lì a rintracciarli, sarebbe costretto a voltare all’indietro le pagine, una dopo l’altra, senza arrivare a granché. Se non alla copertina, che dice:

Roberto Bolaño
2666

 Gianluca Minotti

 

 

Attendendo la luce…

Giorgio Fontana 

LA VELOCITA’ DEL BUIO 

ZONA 2011 – pp. 176

euro 16 

ISBN 9788864381978

Con uno stile sobrio, un linguaggio nitido Fontana riesce a fare un po’ di chiarezza sulle cause che hanno portato l’Italia a questa mancanza di stabilità ed etica, partendo da lontano fino a tempi recenti, analizzando l’ascesa al potere di un uomo amato e odiato, vergogna  e simbolo dell’Italia di oggi.

“Ma io credo che la torsione non sia soltanto lessicale, bensì innanzitutto discorsiva:

il berlusconismo è l’inno all’egoismo assoluto sia nei fatti sia nei discorsi, perché non riconosce l’interlocutore come agente razionale, ma solo come comprimario in una beffa”. (p.101)

Fontana per la scrittura di questo pamphlet si è avvalso della sua formazione filosofica ma anche di un’attenta ricerca in vari settori (dalla sociologia alla politica passando per la storiografia).

La lettura è consigliata a  chi è già indignato e a chi lo sarà…

Mary Zarbo

Maggiori informazioni, assaggio del testo e videotrailer QUI.

Giorgio Fontana

Nato a Saronno nel 1981, è laureato in filosofia e vive a Milano.
Ha vinto la sezione web del Premio Sodalitas-Giornalismo per il Sociale 2011 con un articolo sulla vita in via Padova a Milano dopo i fatti del febbraio 2010. Con il reportage Babele 56 (Terre di Mezzo 2008) è stato finalista al Premio Tondelli 2009. Ha pubblicato i romanzi Buoni propositi per l’anno nuovo (Mondadori 2007) e Novalis (Marsilio 2008). Collabora con la pagina culturale di Ilsole24ore.com e con Terre di Mezzo. È caporedattore di Web Target, magazine dedicato al web marketing. Scrive anche su Wired.it, il manifesto, Playboy. Tra il 2005 e il 2010 ha condiretto il pamphlet letterario Eleanore Rigby. www.giorgiofontana.com

Troppo umana speranza, Alessandro Mari

Alessandro Mari

Troppo umana speranza

Feltrinelli

I Narratori

pp. 749

€ 18

2011

Sto leggendo Troppo umana speranza di Alessandro Mari.  La bandella del libro riporta che Alessandro Mari si è laureato con una tesi su Thomas Pynchon e che ha iniziato giovanissimo a lavorare per l’editoria. Come lettore, traduttore e ghostwriter. Questa però non è una scheda sull’autore e non è neanche una recensione. Non ancora, almeno. Mi restano davanti 680 pagine. Il fatto è che vorrei condividere il libro di Mari con voi. Per cui, vi prego, dite la vostra!!!!

Giuseppe Genna, nel suo sito, qui, lo loda: «Uno degli esordi più potenti e “alti” degli ultimi anni».

E riporta l’incipit:

«Menar merda non è poi una mala occupazione; peccato, certo, non si fa. Rischi invece se ne corrono, e di sovente. Si metta il caso di andare in un paio di zoccoli e senz’accorgersi di spataccare sotto la suola una chiazza venuta da chissà dove; si affondano le dita, tutto il calcagno, e patatràc: riccioli di viscidume risalgono il piede quasi fossero tentacoli di un essere di merda, e lo zoccolo è presto inghiottito. E il puzzo! Gelosamente custodito, allo schiudersi della chiazza si leverà come uno zampillo caldo di fontana… Insomma, la merda a maneggiarla c’ha i suoi contrattempi, ma a prestare l’attenzione necessaria si potrebbero goder le gioie di trafficarla, e nel far così vagolare per viottoli e stradicelle, orti e porcilaie, conoscere ogni braccio di terra e divenire pratici di tutte le cascine. S’apprenderà dove coglierne di fresca senza rimediare bastonate, la maniera di rimestarla e miscelarla, diluirla e custodirla fino alla benedizione e poi menarla per il borgo in ogni sua periferia, là dove la terra ingolla ogni pioggia senza lasciarne alle colture, cedendo alla propria anima di brughiera. E a menar merda ci s’intenderà coi fattori e le pie donne, s’arriverà a comprendere come distinguere bestia da bestia per qualità del defecare – “si è quel che si caga,” ha detto una volta un tale, “ed è meglio tenerlo a mente, ché la merda non dà scampo. Un giorno o l’altro ce l’hai nel piatto o ci sprofondi”. Con l’onesto lavorio e un po’ di buona sorte, infine, al passare del carro e della sua odorosa mercanzia le genti leveranno le mani in segno di saluto, e con due dita vorranno ben turarsi il naso. “Ah! L’è arrivato il menamerda!

Il tramonto non è lontano, l’aria marzolina eppure già di primavera. L’orizzonte è di pianura, largo, le Alpi lo serrano a settentrione e altrove c’è soltanto cielo. Spira un alito di vento, inclina i pennacchi che si levano numerosi dai campi e dalle corti, e dappertutto si ode risuonare secco il crepitio dei falò appena avviati. Era il dì di San Giuseppe, e il fumo saliva da fiamme che divoravano tutto ciò che i paesani davano loro in pasto, che fossero stoppie o fascine umide, finanche la manciata di polvere rimasta sul fondo di macine e frantoi. S’incenerivano vecchi stocchi di frumentone e bucce di castagna, sterpaglie e ciocchi torti, perfino i rametti durati all’ultima sfogliatura dei gelsi. Certi ragazzetti col moccio sull’orlo del naso s’industriavano a rubare qualche chicco e nonostante la minaccia d’un manrovescio lo gettavano tra le fiamme, tappandosi le orecchie per via del fragoroso scoppiettio; vivaci, allora, le risate si fondevano coi rimbrotti e con le invocazioni ripetute allo sfinimento. Si purificava la terra col fuoco affinché s’avverasse una stagione buona, e a incrociare ogni compaesano si avvertiva il medesimo, speranzoso mugugno di preghiere: che i focolai di colera si spegnessero prima che si ripiombasse nei giorni cupi; che la masnada di tugnìt austriaci e tedeschi – e croati, che i croati “son brutte bestie” – se ne tornasse a casa propria ad angariare qualche Asburgo anziché la gente del borgo; che la vecchia schiantasse sfuggendo a nuove pene; che la fulva s’arrendesse a imboscarsi nel fienile; che là sotto il marito ormai svilito tornasse duro come una volta; che ul Tempesta, fabbro da schiaffoni duri come grandine, non se ne avesse a male per quel carico guastato. E che san Giuseppe mandasse pioggia il giusto e un’estate da non soffocare nell’afa, e che Iddio garantisse il raccolto, mica che si morisse di fame come l’anno andato, che i pozzi erano asciutti e così le rogge, senz’acqua i prati e le spighe smilze, e i castagni, le viti, i gelsi, tutto sciupato, le bestie senz’alimento, coi muggiti famelici che squassavano le stalle, magri pure i bachi da seta…
Primaverile. Per il borgo spirava una brezza che odorava di rinascita e il soffio invogliava a fugare le paure, ché a pensarle si temeva si attuassero per colpa di una diavoleria. Non mancavano gli audaci, i quali s’arrischiavano a immaginare le sciagure più tremende, illusi di poterle esorcizzare a sola forza di pensiero, ma in ogni caso oggi nel petto di ciascuno avvampava un bisogno di speranza, e dunque, per devozione ma con economia – si raccomandasse pure la terra al santo, ma mica si sprecasse il poco che Domineddio aveva dato in dono –, ecco bruciare smilzi roghi da lasciare alla notte. Allo svaporare della bruma mattutina, una volta spenti i lucori delle ceneri ancora tiepide, sulla terra nera di campi, orticelli e semenzai si sarebbe versata qualche badilata di concime. Non quello delle rare bestie dei villani, povero, ammonticchiato nei letamai delle cascine ad alimentare mosche e scarabei. Alla terra si sarebbe offerto concime santo, quello che nel borgo di Sacconago consegnava a domicilio Colombino. Letame benedetto.
“Eugenio, corri! Eugenio, è arrivato il menamerda!
».

Io sono rimasto avvinto. Dall’incipit, certo, ma anche dalle pagine seguenti. Dalla scrittura. Dalla forza della scrittura e dal fatto che Alessandro Mari fa una cosa rivoluzionaria: NARRA. Narra con un gusto proprio della Narrazione (ma va’, direte voi). E mette insieme romanzo ottocentesco e postmoderno americano, perché il postmoderno americano si sente. Si sente nella tessitura, nella consapevolezza della tessitura. Nell’energia immaginifica capace di risvegliare quel vero lettore che – si spera – dovrebbe essere in noi. Altrimenti sopito da un’altra specie di libri, i quali, siamo sinceri, si possono leggere anche “dormendo”. O con un occhio solo. O facendo nel mentre altre cose: ché leggere, si sa, non dovrebbe distrarci troppo dallo sbrigare intanto faccende di molto più serie.

Altro elemento che non può non colpire è la padronanza della lingua, la ricchezza di vocabolario, o meglio: l’affrancamento delle parole dai vecchi e polverosi dizionari. Parole, termini, “lemmi” (chiamateli come volete) che, riscattati dall’oblio, saltellano qua e là, fanno l’occhiolino, ci pizzicano il sedere e ci fanno il solletico, tanto contenti sono di dirci/ricordarci il loro nome.

Io sono a pagina 63 e voi? C’è qualcuno di là che lo sta leggendo? Qualcuno che ha il dubbio che questo libro sia un puro esercizio di stile, un dispiegare le armi per una battaglia già persa o che non si farà mai?

Gianluca Minotti

Prima metà del diciannovesimo secolo. Sullo sfondo di un’Italia che non è ancora una nazione, quattro giovani si muovono alla ricerca di un mondo migliore: un orfano spronato dalla semplicità che è dei contadini e dei santi; una donna, sensi all’erta e intelligenza acuta, avviata a diventare una spia; un pittore di lascive signore aristocratiche che batte la strada nuova della fotografia; e il Generale Garibaldi visto con gli occhi innamorati della splendente, sensualissima Aninha.
Siamo di fronte a un’opera che si muove libera nella tradizione narrativa otto-novecentesca – europea e americana. Racconta, esplora documenti, inventa, gioca e tutto riconduce, con sicuro talento, a un solo correre fluviale di storie che si intrecciano e a un sentimento che tutte le calamita.

In viaggio con Zafòn

Titolo: L’ ombra del vento
Autore: Ruiz Zafón Carlos
Traduttore: Sezzi L.
Editore: Mondadori
Data di Pubblicazione: 2004
Pagine: 438

Prezzo: Euro 13,00

 

 

Ci sono libri che avrei voluto leggere in altre condizioni, in altri luoghi.

Seguendo il consiglio di un’amica ho iniziato L’ombra del vento di Carloz Ruiz Zafòn. Probabilmente, se lo avessi visto in libreria, non lo avrei preso, intimorita, forse, dal numero delle pagine o pensando ad un romanzo alla Via col vento.

Mi piace. Sono ad un terzo. La storia intriga, è ambientata a Barcellona, tra l’altro, città che vorrei visitare. La scrittura di Zafòn (nella traduzione di Lia Sezzi) è limpida e non banale.

Ecco, avrei voluto leggere L’ombra del vento durante un viaggio, in treno magari, e avrei voluto sollevare ogni tanto lo sguardo dalle pagine per guardare, con stupore infantile, le bellezze che ancora, eroicamente, esistono a questo mondo.

Mary Zarbo