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Una finestra sull’ignoto, di Antonio Tabucchi

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Una finestra sull’ignoto

Antonio Tabucchi

Perché era andato ad abitare lì? Non lo sapeva. O meglio, lo sapeva. A causa di un paesaggio che gli avrebbe fatto abbandonare l’inquietudine: grandi spazi, campagne, silenzi, le case di una volta, quando le case erano case, e dentro, con le persone, c’erano gli arnesi, gli attrezzi, tutto quello che serviva alla vita di ogni giorno e che si svolgeva intorno, vicino alle case dove si stava.
Però un giorno era venuto l’architetto, un suo amico, bravo architetto nelle grandi città dove si costruiscono grandi edifici di vetro e di acciaio, bellissimi a vedersi, e gli aveva detto: “Questa è una parete che ti nasconde il paesaggio, devi aprirci una finestra, sarà come un quadro dentro la tua casa, ma un quadro naturale nella cui cornice accogli la natura, perché la natura devi lasciarla entrare dalle finestre, non puoi vietarla con un muro”. E disegnando con il gesto delle braccia un’immaginaria finestra in quella parete di cucina dove c’erano le mensole con il sale il pepe e l’olio e le pentole appese a un chiodo, aveva continuato: “Via tutto questo vecchiume, lo sposti nella madia o nella credenza: sotto la finestra ti ci faccio una mensola di travertino, ci posi una ciotola, due mele o due arance, come se fosse un piccolo altare di campagna, un’umile natura morta che accompagna la maestosa umiltà del paesaggio”. E lui aveva osato replicare: “No, di travertino no, ti prego, non voglio del travertino in questa casa”.
“D’accordo”, aveva risposto l’architetto, “te lo faccio in gesso, e te lo dipingo in falso travertino, in modo che si veda bene che è un modesto gesso da contadini che vorrebbe essere travertino. E a questa finestra non ti ci metterò né ante né persiane, tanto è a nord e il sole, che qui è feroce, non ti batterà sul tavolo in maniera troppo violenta, ma potrai vedere il crepuscolo, perché d’estate, quando la notte scende e la calura si smorza, qui il cielo diventa cobalto, le chiome degli alberi si accendono di un verde insolito, hai notato che strano tipo di verde assumono questi alberi?, il verde è un colore composto, per farlo ci vogliono il giallo e l’azzurro, le foglie perdono l’azzurro e gli resta un giallo che le prime ombre notturne punteggiano di scuro, come se fossero mappe di ignote geografie. L’ideale sarebbe lasciarla, questa finestra, aperta all’aria e ai venti, come se il suo interno senza soluzione di continuità arrivasse nell’esterno e lo accogliesse. E tu bevendo un bicchiere e preparando la tua cenetta mentre ascolti musica, non hai più una parete davanti a te, ma l’apertura su ciò che ti circonda. Questo sarebbe l’ideale, ma anche i più alti desideri dell’architettura hanno un limite, anche qui arriverà l’inverno, ti entrerebbero la pioggia e il vento, e dunque, per ovviare, ci metterei un foglio di plexiglas, neppure due centimetri, ma così impercettibile come lo fanno ora che sembra aria, e ti assicuro che a volte sarai tentato addirittura di mettere la mano fuori per sentire il fresco della sera. A proposito, cosa ti piace ascoltare, mentre bevi un bicchiere di vino e ti prepari uno spaghetto, prima di affrontare la notte e i tuoi pensieri che sul foglio bianco si trasformano in parole?”.
“Dipende”, aveva risposto lui, “di solito Mozart, ma anche Chet Baker, soprattutto quando canta con quella sua voce roca e sussurrata, mi calma l’inquietudine, mi fa da ninnananna e mi tranquillizza, anche perché strascica talmente le parole che non le capisco, sembra una nenia antica, poi attacca con la tromba in sordina e ti porta via”.

Stava calando la sera, il cielo si era fatto di cobalto, gli alberi si stavano tingendo di giallo, come se il verde delle foglie fosse caduto all’improvviso. Lui si stava preparando uno spaghettino con dei pioppini che aveva raccolto sul tronco di un albero, con un pizzico di caprifoglio e pecorino locale, mise il disco di Chet Baker, alzò gli occhi e vide la casa dietro la sua. È una casa abbandonata, gli aveva detto il proprietario, una volta ci abitava una famiglia di contadini venuta ai tempi delle alluvioni del Polesine, ma erano morti tutti da anni.
Le finestre al piano superiore erano accese, una più grande e una piccola che doveva essere la finestra della soffitta. E sulla facciata una luce triangolare disegnava un’illuminazione di esatta geometria, come se vi fosse proiettata, perché lampioni non se ne vedevano. E sull’angolo della casa c’era una ruota appoggiata alla parete che sembrava la ruota posteriore di una bicicletta, ma era troppo grande per essere la ruota posteriore di una bicicletta. E poi gli parve di vedere un’ombra che svicolava dietro l’angolo della casa e entrava nel buio, ma di questo non fu sicuro, forse era stata la sua immaginazione. Allora si avvicinò alla finestra, e d’istinto tentò di mettere la mano fuori, come per fare un cenno a qualcuno che non c’era o toccare semplicemente l’aria dell’esterno. Ma la sua mano urtò contro il plexiglas. Vi appoggiò il palmo e subito lo ritirò. Sul plexiglas restò per un attimo l’impronta del suo sudore. Spense la musica e si mise in ascolto. Pensò a com’era strano guardare la realtà che ci circonda come se essa fosse a portata di mano e pensò che niente è a portata di mano, soprattutto quello che vedi, e che a volte ciò che è accanto è più lontano di quello che pensi. Pensò anche di telefonare al suo amico architetto, ma forse certe cose non si possono dire per telefono, è meglio scriverle, altrimenti sembrano insensate. Meglio un biglietto. Mi hai aperto una finestra sull’ignoto, gli avrebbe scritto. Ma lo avrebbe scritto domani.

tratto da “Racconti con figure”, Sellerio editore, Palermo, 2011

Scrivere

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E così vorresti fare lo scrittore?

Charles Bukowski
 
E così vorresti fare lo scrittore?
Se non ti esplode dentro
a dispetto di tutto,
non farlo
a meno che non ti venga dritto
dal cuore e dalla mente e dalla bocca
e dalle viscere,
non farlo.

Se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo.

Se lo fai solo per soldi o per fama,
non farlo
se lo fai perché vuoi
delle donne nel letto,
non farlo.

Se devi startene lì a
scrivere e riscrivere,
non farlo.
Se è già una fatica il solo pensiero di farlo,
non farlo.
Se stai cercando di scrivere come qualcun altro,
lascia perdere.

Se devi aspettare che ti esca come un ruggito,
allora aspetta pazientemente.
se non ti esce mai come un ruggito,
fai qualcos’altro
se prima devi leggerlo a tua moglie
o alla tua ragazza o al tuo ragazzo
o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno,
non sei pronto.

Non essere come tanti scrittori,
non essere come tutte quelle migliaia di
persone che si definiscono scrittori,
non essere monotono o noioso e
pretenzioso, non farti consumare dall’autocompiacimento.

Le biblioteche del mondo
hanno sbadigliato
fino ad addormentarsi per tipi come te
non aggiungerti a loro
non farlo
a meno che non ti esca
dall’anima come un razzo,
a meno che lo star fermo
non ti porti alla follia o
al suicidio o all’omicidio,
non farlo
a meno che il sole dentro di te stia
bruciandoti le viscere,
non farlo.
Quando sarà veramente il momento,
e se sei predestinato,
si farà da sè e continuerà finchè tu morirai o morirà in te.

Non c’è altro modo
e non c’è mai stato. 

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Festa di compleanno di Luigi Bernardi (in memoria)

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Foe di J. M. Coetzee

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Foe

Einaudi

pp. 146

2007

€ 9,00

Traduzione Franca Cavagnoli

La forma e la vertigine: Foe di J. M. Coetzee

 

 

“Abbandonati siamo come bambini smarriti nel bosco. Quando mi stai davanti e mi guardi, che ne sai tu dei dolori che sono dentro di me e che ne so io dei tuoi? E se mi gettassi a terra davanti a te e piangessi e parlassi, che ne sapresti di me più che dell’inferno quando qualcuno ti viene a dire che è tutto fuoco e spaventevole? Soltanto per questo noi uomini dovremmo stare l’uno davanti all’altro rispettosi, pensosi, pieni d’amore, come davanti all’ingresso dell’Inferno.”

F. Kafka, tratto da una lettera a O. Pollak, 1903

 

Come si può descrivere un romanzo che è nello stesso tempo un problema e un programma, che è  strutturato cioè sulle condizioni di verità e di efficacia che determinano la possibilità o l’impossibilità del narrare? Eppure “Foe” è soprattutto una storia, una storia i cui protagonisti non sono semplici funzioni di una riflessione teorica, per quanto intellettualmente appassionante, ma personaggi che con allucinata consapevolezza esplorano la singolarità della propria esistenza, e che attraverso gli unici due mezzi a disposizione loro concessi, la parola e il silenzio, si propongono di non svanire senza aver lasciato un segno di sé, o dell’altro sé di cui si sentono oscuri portatori, o se non di sé almeno della propria assenza.

Diciottesimo secolo. L’inglese Susan Barton, imbarcata su un vascello di ritorno dal Brasile dove ha cercato senza esito la propria unica figlia, fuggita o rapita in circostanze sconosciute, si ritrova naufraga  – in seguito all’ammutinamento dell’equipaggio della nave –  su una remota e inospitale isola dell’Oceano Atlantico.  Scopre che il luogo,  solitario, ostile, battuto continuamente dai venti, è abitato, oltre che da gruppi di scimmie poco socievoli, anche dal naufrago Cruso e da Venerdì, suo servo muto, a cui secondo il racconto di Cruso, i mercanti di schiavi hanno mozzato la lingua in tenera età. Scopre anche che i due abitanti dell’isola sembrano averne a tal punto introiettato la desolazione da adattarsi a una condizione di mera, disincantata sopravvivenza, priva di aspettative e desideri.  Lo spirito di iniziativa della donna non è sufficiente a convincere Cruso a migliorare il proprio stato, magari attraverso il reperimento o la costruzione di nuovi utensili, né a indurlo a cercare di lasciare una testimonianza della propria presenza, un ricordo, un segno volontario di sé in un habitat straordinariamente deserto e inumano. Per lo scorbutico Cruso bastano i semplici muretti e terrazzamenti eretti con migliaia di piccole pietre a ricordare i lunghi anni del suo esilio: del resto, a che vale ricordare o comunicare o costruire imbarcazioni per tentare la fuga se “il mondo è pieno di isole”?

Ci vorrà un anno perché una nave incrociando al largo dell’isola porti soccorso ai tre naufraghi, ma Cruso non vedrà mai il proprio ritorno in patria poiché nel giro di pochi giorni muore di una atavica, ricorrente febbre maligna. A Susan Barton, che sbarca di nuovo in Inghilterra insieme a Venerdì, ormai affrancato ma legato indissolubilmente alla donna, rimane il compito di tramandarne la storia o meglio di cercare qualcuno che sappia conferire “consistenza” alla sua testimonianza, che sappia legare gli episodi significativi e sappia scorgere sia nei singoli elementi sia nel complesso della vicenda quel significato più profondo e universale che necessariamente sfugge anche al diretto testimone: “Ahimè, sembra che le mie storie abbiano sempre più implicazioni di quante io non ne intenda, sicché devo tornare indietro e tirar fuori a fatica quella giusta, scusandomi per quelle sbagliate e cancellandole. C’è chi nasce narratore; a quanto pare non è il mio caso”.

Per queste ragioni Susan Barton si metterà sulle tracce di Foe, ovvero di Daniel Defoe (è noto che lo scrittore, figlio di un fabbricante di candele, aveva aggiunto il prefisso nobiliare “de” al proprio cognome) e sarà questa ricerca, che è insieme un approssimarsi e un evocare, ma è anche come ogni ricerca un’opera di reciproca seduzione e di conquista, il motivo principale dei restanti due terzi del romanzo.

Ho bisogno di fermarmi e riformulare la domanda iniziale: come si può descrivere un romanzo che è nello stesso tempo forma e vertigine?

 Perché è alla scabra essenzialità del racconto della protagonista (Coetzee non è nuovo a queste prodigiose invenzioni di personaggi femminili, da Elizabeth Costello alla donna malata di cancro de L’età di ferro), è alla linearità del suo schema narrativo, all’interno del quale si possono rintracciare, anche se mai dichiarati, addirittura topoi classici (si può non riconoscere nella figura della madre alla ricerca della figlia il modello Demetra – Persefone? si può non pensare al rapporto tra Cruso e Venerdì come a una depauperata, quasi parodica, riproposta della relazione Prospero-Calibano?), è alla problematica sociologica e politica che le figure stesse dell’azione, a partire da Venerdì, sembrano voler suscitare (è un esempio di letteratura post-coloniale? è una metafora della condizione dell’intellettuale nel Sudafrica dell’apartheid?), è a tutte queste linee compositive che  il romanzo stesso risponde, offrendo una svolta impensata e improvvisa, quasi pescando dalle sue stesse profondità e dalla materia elementare da cui è costituito un’energia propulsiva sconosciuta, quasi a confermare le parole di un’intervista dello stesso Coetzee: “È la scrittura a rivelarti quello che volevi dire, anzi a volte è lei che costruisce quello che volevi dire. […] È questo il senso in cui si può affermare che la scrittura ci scrive.”

Al memoriale scritto in prima persona, segue infatti, nella seconda parte, un flusso di lettere che Susan Barton invia allo scrittore londinese incalzandolo, interrogandolo, ribattendo alle obiezioni, agli ammonimenti, ai consigli di quest’ultimo (non si potrebbero inserire dei pirati e dei cannibali in questa storia? E non si potrebbe fornire Cruso almeno di un moschetto?), lettere scritte fin da dentro la residenza abbandonata da Foe stesso, dove la donna e Venerdì hanno trovato rifugio, lettere scritte durante un viaggio disperato e pieno di pericoli che conduce i due ex-naufraghi da Londra fino a Bristol allo scopo di imbarcare, ma senza risultato, l’inerme Venerdì verso la natia Africa. E all’interno di questo vortice epistolare il racconto della varia umanità incontrata in città e lungo le strade d’Inghilterra e il tentativo di decifrare il silenzio di Venerdì e la sua misteriosa, elusiva danza e la comparsa di una giovane donna che si dichiara, in un tentativo di agnizione mancato, figlia di Susan.

Nella terza parte è Foe stesso, figura antagonistica ed ambigua (come suggeritomi da una non superficiale lettrice, la parola “foe” in inglese significa anche “avversario”), a prendere in mano le redini di una vicenda che lungi dall’aprirsi verso una soluzione univoca (il romanzo di Cruso/Crusoe verrà dunque scritto?) rilancia nuove e più complesse questioni: “In un antico autore italiano ho letto di un uomo che ha visitato, o sognato di visitare, l’Inferno, – disse Foe. – Lì ha incontrato le anime dei morti. Un’anima piangeva. «Non credere, o essere mortale, – disse l’anima rivolta a lui – che poiché non sono una creatura in carne ed ossa, queste lacrime di cui sei testimone non siano lacrime di vero dolore». – Vero dolore, certo, ma di chi – dissi. – Dello spirito o dell’italiano?”.

Siamo così certi della realtà delle nostre emozioni e dei nostri pensieri? Così convinti della nostra presenza, del nostro corpo e della sua ombra? Contiamo davvero che i segni, che continuamente lasciamo intorno a noi, siano meno approssimativi e arbitrari delle infinite “o” tracciate da Venerdì, in chiusura della terza parte, mentre sta seduto allo scrittoio di Foe, impugnando la sua penna, indossando le sue vesti? E siamo sicuri, infine, di non essere a nostra volta creature di una segreta sconfinata scrittura, che per noi abbia perfino inventato il pungolo del dubbio, il conforto del sonno, la consistenza della forma, il vuoto della vertigine?

Ecco: di nuovo la vertigine. È necessario allora ritornare alla domanda iniziale, ma sotto una nuova luce (le domande non sono fatte forse per questo? Per essere riproposte sempre in forma diversa?): come si affronta la vertigine? O come si attraversa “la selva oscura del nostro cuore” senza perdere la parola? Come descrivere l’inferno dentro e intorno a noi?

La scrittura di Coetzee potente, complessa, enigmatica non è alla ricerca di soluzioni consolatorie, è una scrittura che nasce sulla soglia della stanza della tortura (“Nella stanza buia: lo scrittore e lo Stato in Sudafrica” è il titolo di un suo saggio del 1986, lo stesso anno di uscita di “Foe”): essa si confronta con il senso del dolore e con quello dell’abominio, cercando in ogni momento di porsi le domande necessarie, resistendo alla fascinazione mortale della Gorgone, scarnificando il processo immaginativo fino a un nudo frammento di verità, per quanto transitorio e precario.

Dimenticati e pensosi ci muoviamo all’interno della scrittura, ascoltando le voci dei salvati, immaginando quelle dei sommersi. È ciò che possiamo fare.

O come l’ignoto narratore dell’ultimo breve segmento del romanzo possiamo rientrare nella casa di Foe, avvicinarci agli involucri mummificati dei corpi dei protagonisti, ognuno colto in una posa, quasi antichi abitanti di Pompei fissati per sempre dall’orrore, e affrontare la vertigine, l’immersione improvvisa nell’abisso, giù, verso il relitto e i suoi mostri nascosti,  per contemplare e tradurre le parole d’acqua, i suoni liquidi e inauditi emessi dalla bocca di uno schiavo, a cui non possiamo che offrire la nostra spaesata, inadeguata testimonianza, ma ad occhi aperti, ad occhi aperti fino in fondo.

Davide Fischanger

Perché scrivo per i bambini: Isaac B. Singer

Il decalogo di Isaac Bashevis Singer

 

 

 

 

 

 

Perché scrivo per i bambini

1. I bambini leggono libri, non recensioni. Per loro il giudizio dei critici non vale una cicca.

2. Non leggono per cercare un’identità.

3. Non leggono per liberarsi dai sensi di colpa, né per soddisfare la propria sete   di ribellione, né per sbarazzarsi dell’alienazione.

4. Non sanno che farsene della psicologia.

5. Detestano la sociologia.

6. Non cercano di capire Kafka e Finnegan’s Wake.

7. Credono ancora in Dio, nella famiglia, negli angeli, nei diavoli, nelle streghe, nei folletti, nella logica, nella chiarezza, nella punteggiatura e in altri simili vecchiumi.

8. Amano le storie interessanti, non i commenti, non le guide alla lettura, non le note a piè di pagina.

9. Quando un libro li annoia, sbadigliano senza scrupoli, senza alcuna vergogna o timore dell’autorità.

10. Non si aspettano che il loro scrittore prediletto redima l’umanità. Giovani come sono, capiscono che egli non ha questo potere. Solo gli adulti hanno illusioni così infantili.

Isaac B. Singer

Stanze d’albergo

SIAMO TUTTI AMERICANI

Poi leggi libri americani e trovi poliziotti o agenti dell’FBI che non hanno eguali. Nessun confine tra Bene e Male. Ma non è questo a renderli unici. È che nelle stanze d’albergo dove alloggiano per qualche missione, dopo essersi lucidati le scarpe e aver pulito la pistola, fanno delle trazioni aggrappandosi alla sbarra posizionata sulla porta. Per questo sono dei duri. Ché i nostri poliziotti o agenti quando sono in missione e occupano stanze d’albergo, le trazioni non possono farle perché nelle nostre stanze d’albergo non ci sono sbarre posizionate sulla porta, o almeno io non le ho viste; ma io forse conto poco, essendo stato, in generale, poche volte in albergo. E quelle poche volte erano alberghi per lettori di professione. Molti leggii, superfici piane, nessuna sbarra. Ma magari, non so, esistono anche in Italia categorie di alberghi fatti su misura per poliziotti e agenti. Ora, anche ammettendo questa possibilità, il fatto è che in un thriller italiano, un poliziotto che in un albergo fa trazioni aggrappandosi alla sbarra posizionata sulla porta, proprio non funziona. Fa ridere. Almeno a me fa ridere. Dico questo perché quando un italiano prova a scrivere un thriller o un noir ambientato in Italia, non dovrebbe mai dimenticarlo: di essere italiano e di stare in Italia. Che per quanto tu possa aver letto Hammett, Chandler, Ellroy e Raymond, sempre a Viterbo stai. Viterbo, Frosinone o Perugia. E qualcuno potrebbe obiettare: ma io l’ambiento a Milano. Milano è una città internazionale; a Milano di sbarre è pieno. D’accordo, sì, qualche sbarra potrà anche starci – addirittura posizionata sulla porta di una stanza d’albergo – ma a mancare è la consuetudine. La mentalità. L’allenamento. Del poliziotto e del lettore.

E ora tutti alla sbarra a leggere.

Gianluca Minotti

Autori per il Giappone

Segnaliamo volentieri una lodevole iniziativa a favore di Save the children.

Autori affermati o semplici blogger stanno donando un loro racconto dedicato al Giappone. In cambio della lettura, chi vuole,  può fare un’offerta, anche di un euro, a Save the children.

QUESTO è il sito.

Donne che (si) scrivono

L’EVOLUZIONE DELLA SPECIE

 

 

Cosa differenzia questa donna

da quest’altra?

Entrambe leggono, si sa, ma di entrambe non sappiamo cosa.

Non è del tutto escluso che leggano lo stesso libro, anche se è certo che la seconda non sta propriamente leggendo un libro, perché il supporto è diverso. Potrebbero, altresì, ed è molto probabile, avere a che fare con libri diversi, essendo comunque possibile un’altra opzione. Leggono cose diverse che hanno scritto loro. La donna di Renoir il suo diario o manoscritto, magari prima di inviarlo a Literaid, e la donna con il telefonino/Ipad un suo sms o ebook. A pensarci bene, potrebbero stare leggendo ognuna la cosa dell’altra, se non fosse però che non sono contemporanee e quindi, se è possibile che la seconda legga quanto scritto dalla prima, non lo è altrettanto il contrario: come caspita avrebbe fatto la donna di Renoir a leggere qualcosa che sarebbe stato scritto da una donna che, a sua volta, sarebbe venuta al mondo oltre un secolo dopo? Mistero. E proprio perché è un mistero, e quindi non c’è risposta, io sono portato ad avallare quest’ultima ipotesi: che cioè le due donne stiano leggendo ognuna la cosa dell’altra e che in questo risieda esattamente la ragione per la quale le donne sono le più progredite tra tutte le specie: perché da sempre legate le une alle altre da una fitta corrispondenza grazie alla quale ognuna è al contempo lettrice e scrittrice di un’evoluzione consapevole.

Gianluca Minotti

Perché in certi libri 2+2 fa 5

 

PERCHÉ IN CERTI LIBRI

2+2 FA 5

OVVERO: DI TRENI E AUTOMOBILI

 

 

 

 

Due più due fa quattro. Non ci piove né ci tira vento. E infatti se provi a buttare giù questa operazione aritmetica su un post-it, magari giallo, rosa o verde, sempre quattro fa. Ma se prendi un personaggio di una storia e metti lui seduto a un tavolo a scribacchiare due conti su un post-it, non è mica detto che due più due faccia quattro. Voglio dire che ci sono personaggi di storie bellissime per cui due più due non fa quattro e se lo facesse sempre, sai quanto ci annoieremmo. D’altronde, lo dicono anche i Radiohead che 2+2=5

Ora però non fraintendiamo. Non è che scrivere una storia giustifichi qualsiasi risultato sballato. Sempre restando sul due più due, per esempio, le cose funzionano quando appunto la somma fa cinque, perché se facesse settecentonovantaquattro, sarebbe troppo. Sarebbe ingiustificato. Come dire: è giusto che i conti non tornino: ma di poco, ché – si sa – il troppo stroppia. È una questione di misura, di equilibrio, giacché, può sembrare strano, ma: bisogna essere precisi almeno al secondo decimale quando non si fanno tornare i conti. A meno che non si voglia mandare in bancarotta il proprio personaggio già a pagina cinque. Pagina cinque che poi sarebbe pagina quattro, risultante dalla somma di due pagine più due pagine, che tu volti e – che è successo? – ti ritrovi a pagina cinque. Leggere e scrivere implica saper fare di conto. C’è un personaggio che deve prendere il treno delle 17 e 15 per Veroli, provincia di Frosinone. Ottimo: può funzionare. O meglio, potrebbe funzionare, perché sarebbe bene sapere, prima di mettere il proprio pupillo in fila al botteghino di Alessandria, che i treni – almeno fino a oggi – non passano per Veroli per il semplice fatto che a Veroli non c’è ferrovia. E voi osserverete: sarà il bigliettaio a dirglielo. A dirgli: «Caro Signore, Veroli non è contemplata. Posso farle un biglietto fino a Frosinone», rivelandogli una verità che potrebbe sorprendere non tanto lui quanto mettere in imbarazzo il suo inventore. Non so se questo esempio è davvero calzante. Mi è venuto, ho improvvisato. In realtà a me i personaggi che prendono treni mi son sempre piaciuti. Più di quelli che viaggiano in macchina, non fosse altro perché su un treno sai quante persone si possono incontrare e storie e possibilità narrative. Certo, forse anche in macchina. Un incidente, una ruota forata, un tamponamento, finisce la benzina, qualcuno che ti segue, abbassa il finestrino e ti spara con un fucile. Però è un fatto che, se ci fate caso, nei libri in cui i personaggi prendono treni, i conti non tornano mai esattamente – magari anche soltanto grazie ai ritardi ferroviari – mentre in quelli in cui i personaggi si spostano in macchina, i conti tornano di più, perché i protagonisti son più razionali. Per loro, due più due fa quattro. Per loro e per tutti quelli che gli ruotano intorno. E se magari vien fuori a un certo punto che due più due fa cinque, la storia è tutta nel tentativo estremo di far quadrare i conti, con un lieto fine in cui sì, il cerchio si chiude. Se ci sono treni di mezzo, invece, due più due fa cinque fino all’ultima pagina. Non c’è niente da fare.

Gianluca Minotti

Raccontare storie (2)

Raccontare storie (1)

«Più ci sforziamo di capire il mondo, più il mondo si fa elusivo e ingannevole». «Ci manca ancora una definizione adeguata della realtà». «Chi non è persuaso della certezza delle cose, chi è ancora abbastanza aperto da mettere in dubbio ciò che ha davanti agli occhi, tende a osservare il mondo con grande attenzione, e da questa vigilanza nasce la possibilità di vedere qualcosa di cui nessun altro si è accorto prima. Bisogna essere disposti ad ammettere di non possedere tutte le risposte. Altrimenti non si potrà mai dire niente di significativo».

Ho pensato che mio padre fosse Dio è un oggetto curioso, frutto di una sfida che nel 1999 Paul Auster lanciò dai microfoni radiofonici di NPR al popolo americano: mandateci storie vere, narrate in forma breve «capaci di sfidare le nostre aspettative sul mondo». Nessun limite di argomento o di stile. Ebbene, fu il delirio: arrivarono più di quattromila storie. Pubblicarle tutte era impossibile, e così, quelle ritenute migliori, vennero raccolte da Auster in questo libro uscito per Einaudi nel 2002. Un libro che non racconta soltanto storie singole, ma che testimonia per frammenti un’unica, tormentata, divertita e mai doma curiosità nell’interpellare il mondo e la propria identità. Non è tanto importante osservare come uomini e donne comuni – spesso di bassa estrazione sociale – si siano qui improvvisati scrittori e scrittrici mossi, magari, da velleità artistica, ma il fatto che una prospettiva su come si possa raccontare “ironicamente” la realtà sia giunta da migliaia di persone “non del mestiere”, temerarie e sfrontate di fronte a quel: “Se più cerchiamo di capire il mondo e più esso si fa elusivo, cosa possiamo fare?”.

Friedrich Schlegel (di cui tutti, ovviamente, conosciamo a menadito l’opera omnia) si poneva una domanda simile: come cogliere l’Infinito (la realtà)? Lui la risposta la sapeva: attraverso la Filosofia o l’Arte. Ma sia nell’una che nell’altra ci si avvale di mezzi finiti. Introduce allora il concetto di Ironia che suppone l’Infinito come obiettivo cui si deve assolutamente pervenire e l’inadeguatezza di ogni pensiero che miri all’Infinito, in quanto sempre pensiero de-terminato. In questo senso l’Ironia è quell’atteggiamento spirituale che tende a superare e a dissolvere questo determinato e quindi tende sempre a spingerlo oltre. L’ironia è un mezzo eversivo (come il comico in Henri Bergson, altro autore i cui libri son tutti sui nostri comodini) e ha la precisa funzione, in un’opera di disvelamento del reale, di forzare le serrature del determinato per sfondare una porta altrimenti invalicabile. È quanto fanno, a loro modo, gran parte dei racconti di Ho pensato che mio padre fosse Dio, che sono cronaca mai neorealista, perché, seppure a volte ci raccontano dei piccoli episodi di vita quotidiana, si elevano sempre a tentativo sghembo di cogliere il significato di un’intera esistenza sapendo di non poterla esaurire.

Questo è quello che fa gran parte della narrativa moderna, da Boccaccio a Mario Vargas Llosa, (Nobel 2010), dove ad esempio la ricerca dell’Io non è (come in Joyce o nella Woolf o in Faulkner) affidata al flusso di coscienza o (James, Proust) allo scavo psicologico dei personaggi ma alla pura affabulazione: alla narrazione, appunto. È il gioco della narrazione (Il gioco del mondo. Rayuela secondo Cortázar) che solo può farci approdare a un Senso, predisponendoci, per quanto imperfettamente, a una ri-costruzione del reale. Mai identica, appunto, semmai un calco – come dice Trudi, che però è essa stessa l’incarnazione, la personificazione di quell’Ironia di cui parlava Schlegel – o ancor meglio, la sindone. Però assolutamente desacralizzata.

Gianluca Minotti

Paul Auster

Ho pensato che mio padre fosse Dio

Einaudi

pp. 207

€ 15,00