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Laurent Binet
HHhH – Il cervello di Himmler si chiama Heydrich
Einaudi
Frontiere
2011
Traduzione di Margherita Botto
pp. 346
€ 20,00
Quando i suoi attori recitavano (i leggendari artisti dell’ensemble teatrale Cricot 2 di Cracovia), il regista polacco Tadeusz Kantor restava letteralmente in scena accanto a loro, li guardava, ne accompagnava i movimenti, le azioni, ne ascoltava le parole, come muto e invisibile testimone di quei frammenti di vita e di memoria riscattati sul palcoscenico da un’arte preziosa e segreta: un testimone impassibile e presente, lucidamente presente. Soleva dire che l’attore è come un condannato a morte e che egli in quanto autore e regista aveva il dovere etico di stargli vicino. Aveva tratto questa convinzione da un episodio della Seconda Guerra Mondiale e dell’occupazione nazista della Polonia: l’arresto e la fucilazione di un gruppo di intellettuali e di artisti ad opera delle SS. Nel gruppo dei condannati a morte vi era un nobile polacco che, in considerazione delle sue origini, avrebbe potuto salvarsi, ma che chiese di non essere separato dai suoi amici e, dopo aver assistito al loro assassinio, fu ucciso per ultimo.
La recente uscita in edizione economica di “HHhH” di Laurent Binet (Einaudi), occasione per me di una lettura da troppo tempo rimandata, mi ha fatto tornare in mente questo carattere peculiare della concezione artistica di un grande maestro del Novecento, forse perché mi sembra che da qui si possa ricavare una delle chiavi per capire questo strano e appassionante libro. Un libro che l’autore definisce romanzo e che, senza scostarsi mai dall’ordine puntuale dei fatti, racconta dell’Operazione Antropoide, azione predisposta dai Servizi Segreti alleati durante la Seconda Guerra Mondiale che condusse all’uccisione, avvenuta il 27 maggio 1942 a Praga, del gerarca nazista Reinhard Heydrich.
Sì, è accaduto anche questo e “HHhH” (acronimo di Himmlers Hirn heiβt Heydrich, “il cervello di Himmler si chiama Heydrich”) si incarica di raccontarcelo: un pugno di uomini riuscì, nel cuore della Fortezza Europa, ad eliminare la famigerata “bestia bionda”, il braccio destro del capo delle SS Heinrich Himmler, il pianificatore dello sterminio degli Ebrei e, all’epoca dei fatti narrati, il sanguinario governatore del Protettorato di Boemia e Moravia.
Il racconto di Binet, ben documentato sul piano storiografico, perfettamente contestualizzato e pervaso sempre da una ammirevole cautela nell’uso delle descrizioni e dei giudizi, è il frutto di una passione e quasi di un’ossessione nata ed alimentata dai tempi della giovinezza dell’autore. Ed è questo primario stimolo che sollecita e giustifica in primo luogo la scelta della forma-romanzo, rispetto a quella del saggio. Quasi che Binet, con un atto di sofferta ma autentica fiducia, assegnasse alle risorse specifiche del romanzo la possibilità di cogliere l’essenza di un segreto più profondo e nello stesso tempo più familiare nella vicenda raccontata. La vicenda cioè di due uomini comuni, Jan Kubiš di origine ceca e Jozef Gabčik slovacco, che pur consapevoli di svolgere una missione con pochissime possibilità di salvezza, accettarono di farsi paracadutare in un territorio altamente sorvegliato e piegato dalla brutale repressione nazista e condussero a termine un compito da molti ritenuto impossibile, ridando fiducia e speranza ai resistenti di ogni Paese occupato.
Ora, se è vero che Binet (nato nel 1972) non si è fisicamente lanciato con il paracadute insieme a Kubiš e Gabčik, né ha fisicamente partecipato alla eroica resistenza che questi, traditi da un delatore, opposero insieme ad altri cinque compagni nella chiesa dei Santi Cirillo e Metodio, riuscendo a tenere in scacco per otto ore ben ottocento SS prima di essere sopraffatti, pure ciò che conquista nel suo racconto è uno spiccato, e direi sempre più raro, senso di umanità e di responsabilità nei confronti della materia trattata. Una responsabilità che egli manifesta mettendosi in gioco come scrittore ed anche come individuo, non nascondendosi le difficoltà del proprio compito e non indulgendo in particolari raccapriccianti o in sequenze melodrammatiche.
“Sento il motore della Mercedes nera che guizza sulla strada come un serpente”, è questa l’immagine che per ammissione dello stessa autore genera l’intero meccanismo narrativo. Ma quello che Binet costruisce è un romanzo multiplo, anzi un infraromanzo secondo la sua stessa definizione. È il romanzo di una nazione bella e sfortunata, la Cecoslovacchia sorta dalle ceneri dell’Impero Asburgico, abitata da cento anime diverse e divise; è il romanzo di una delle personalità più malefiche della Storia, Heydrich, “l’uomo più pericoloso del Reich”, il nazista perfetto a cui pure erano state paradossalmente attribuite da alcuni suoi rivali in seno al Partito ascendenze ebraiche; è il romanzo dell’Europa delle diplomazie britannica e francese e della vergognosa, maldestra arrendevolezza di queste alla logica del predominio razziale tedesco; è anche un romanzo di spie, di traditori, di movimenti clandestini, di governi in esilio e di orgoglio nazionale da difendere; è un romanzo di gente comune, soldati, casalinghe, sarte, insegnanti, operai, portieri, giocatori di calcio; è il romanzo degli uomini, delle donne e dei bambini morti ammazzati di Lidice, la cittadina completamente rasa al suolo dai tedeschi per rappresaglia: colossale errore propagandistico del regime di Hitler (che infatti alle Fosse Ardeatine, ricorrerà a metodi meno plateali); è anche un romanzo di intellettuali e di poeti (Vítezslav Nezval, Joseph Roth, Saint-John Perse, Boris Pasternak, ma anche Milan Kundera e il Jonhatan Littel de “Le Benevole”), perché anche intellettuali e poeti hanno un ruolo, nella Storia, e la loro responsabilità sta sempre e soltanto nelle parole che essi usano: e non è molto, ma neppure poco.
“A quella curva, in via Holešovice, ho l’impressione di aspettare da sempre”: ognuno dei percorsi aperti da Binet all’interno del proprio racconto converge in un punto preciso, la curva a gomito di via Holešovice di Praga, dove Kubiš e Gabčik attendono, quel 27 maggio 1942, la Mercedes decapottabile nera di Heydrich, che , per un malriposto senso di onnipotenza, viaggia abitualmente senza scorta. E nelle mirabili pagine che descrivono quegli istanti fatali (il mitra che si inceppa, la gente che fugge dal tram, la granata anticarro lanciata da Kubiš, Heydrich che barcolla ferito, l’inseguimento a piedi) Binet scopre di non aver atteso, in anni di ricerche e di riflessioni, che di essere presente lì, a quella stessa curva, in quel preciso momento. Binet è lì: senza poter far altro (ma è tanto, se si è scrittori onesti) che osservare i propri eroi mentre assolvono umanamente un compito disumano (perché uccidere non è mai un compito di cui andar fieri) ed accompagnarli con lo sguardo verso il loro destino di condannati a morte.
Forse è per questo che ho pensato a Kantor quando ho letto il romanzo di Binet, ma ho pensato anche a “Soldati di Salamina” di Javier Cercas, personalissima indagine all’interno di un episodio minore della guerra civile spagnola, ed ho pensato anche a Virgilio e all’Eneide, e al modo in cui egli, ultimo grande poeta, è presente alla morte dei propri eroi. Perché c’è sempre una storia ad attenderci da qualche parte, un’indagine da svolgere, un filo da dipanare, un uomo o una donna da ricordare. Perché ciò che si racconta non può prescindere dal nostro sguardo. Perché l’eterno problema di un poeta è sapere cosa fare dei suoi occhi e delle sue parole quando il male stringe la gola, e la morte prende il sopravvento, quando la casa è perduta, la vita in pericolo, tutto è disperso. Saper far pesare le parole esattamente quanto pesa la vita umana: ché, sennò, è tutto tempo perso, è tutto un trucco da quattro soldi, è tutto letteratura kitsch.
P.S.: Per la cronaca Heydrich morì a seguito delle ferite riportate nell’esplosione della bomba lanciata da Kubiš. La ferita, non particolarmente grave, portò in un breve periodo di tempo allo svilupparsi di una setticemia che risultò fatale. Sarebbe bastata della banale penicillina a salvarlo. Ma la penicillina, abbondante nei Paesi Alleati, nel Terzo Reich era merce rara. Rara anche per i presunti rappresentanti di una razza superiore.
Davide Fischanger
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Rilancio volentieri un’iniziativa di Giulio Mozzi (Mary)
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The WordPress.com stats helper monkeys prepared a 2013 annual report for this blog.
Here’s an excerpt:
A New York City subway train holds 1,200 people. This blog was viewed about 8,100 times in 2013. If it were a NYC subway train, it would take about 7 trips to carry that many people.
I circuiti celesti
66thand2nd
Collana: Vite inattese
pp. 128
€ 15,00
Dopo il folgorante esordio con Il nemico. Romanzo eretico, (Isbn Edizioni, 2009; da poco ristampato, sempre dalla Isbn, con l’aggiunta de La mela sulla schiena) e il successivo, La luce prima (Isbn Edizioni, 2011), torna Emanuele Tonon. Per 66thand2nd esce infatti, I circuiti celesti. Una biografia di Marco Simoncelli. Una biografia lirica. Personale. Perché c’è un filo comune che lega i libri di Tonon, un’ostinata ricerca, una lucida ossessione, una mistica: sia quando parla del padre (Il nemico), sia quando si rivolge alla madre (La luce prima), o a Marco Simoncelli, («Avevi allargate le braccia, stavi a cavalcioni sulla moto in corsa. In quella cavalcata trionfale prossima allo svenimento, mentre non riuscivi a respirare costretto dal casco, mentre dovevi raggiungere uno stato di coscienza superiore per ultimare i giri che ti separavano dalla vittoria – quell’euforia così prossima alla gioia – in quella cavalcata tutto si era rivelato: la tua natura angelica, la tua accettazione dell’aria»), Tonon guarda dritto in faccia il dolore con l’intento di trascenderlo. Che non significa cercare facili consolazioni. La sua scrittura è al contempo un canto, una riappropriazione, un omaggio, un gesto d’amore, ma anche un grido feroce per dire l’osceno che è la vita, la luce che in essa c’e e che al contempo contiene l’abisso. Ed è per questo che, nell’incipit sopra riportato, in quella visione di un Marco Simoncelli che, arrivando terzo, si aggiudica il campionato del mondo nella classe 250, c’è già tutto. Soltanto tre anni dopo, in quello stesso circuito – Sepang, Malesia – egli troverà infatti la morte. “Tutto si era rivelato: la tua natura angelica, la tua accettazione dell’aria”. Ne Il Nemico, a pagina 16, (dell’edizione del 2009), Emanuele Tonon scrive: “Tutto accade in quella visione: la scelta di Dio è fatta da sempre, tutto accade sotto i suoi occhi ciechi».
Di seguito, presa direttamente dal sito di 66thand2nd, riportiamo la trama de I circuiti celesti:
La folgorante carriera di Marco Simoncelli, dalle minimoto alla classe regina fino al drammatico incidente di Sepang. Il Sic – come lo chiamavano tutti nel mondo delle corse – non ha vinto tanto, solo alcuni splendidi gran premi e un inatteso mondiale in 250. Eppure con il suo stile di guida arrembante, il sorriso timido e l’inimitabile capigliatura ha incarnato più di altri l’epica del motociclismo, il regno della velocità in cui si riaccende il fascino nobile delle giostre dei cavalieri. I prati, le lance e i cavalli hanno lasciato il posto all’asfalto, alle mescole e all’elettronica: «A sovrastare tutto, però, rimane l’ardimento, l’accettazione e la sconfitta della paura». Procedendo per improvvise illuminazioni, scegliendo di svelare sé stesso davanti all’oggetto del proprio racconto, Tonon compone una biografia lirica ed emozionante di Simoncelli, restituendo il campione romagnolo in tutta la sua umanità, in tutto il talento funambolico espresso tra i cordoli dei circuiti terrestri. «Cosa si cerca quando si corre in moto? È l’immortalità che si vuole raggiungere. I piloti immortali sono rari, vivono nel regno dei cieli, e sono buoni amici».
Gianluca Minotti
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Titolo: Casilina. Ultima fermata
Autore: Enrico Astolfi
Editore: Ponte Sisto
Collana: Ombre
Data di Pubblicazione: Settembre 2013
ISBN: 8895884779 ISBN-13: 9788895884776
Pagine: 280
Reparto: Gialli
Ci segnalano la recente uscita del nuovo romanzo di Enrico Astolfi, Casilina. Ultima fermata.
(QUI e QUI le nostre recensioni di altre opere dell’autore)
Un noir urbano ambientato al Pigneto, quartiere periferico romano, zona multietnica, modaiola, spesso alla ribalta della cronaca. Due storie s’intrecciano. Franco, delinquente di borgata, personaggio psicotico che incarna una città in preda alla violenza più becera, esce di galera. Barcollando tra apparenza e realtà, cerca di ricostruirsi una vita. Il suo quartiere, la dimensione familiare, la casa, nulla è come ricordava. Roy Van Persie, un olandese innamorato dell’Italia, arriva a Roma per prestare servizio presso un’associazione di volontariato che recupera cani randagi. All’appuntamento, però, non si presenta nessuno, la sede non esiste. Roy si perde nei meandri del Pigneto. Da salvatore di animali diventa lui stesso un randagio disperso nella città eterna. Attraverso i suoi occhi e quelli di Franco si scopre un’umanità capace sia di piccoli e grandi gesti di affetto che di violenza estrema.
Enrico Astolfi è nato a Magenta (MI) nel 1976, ferrarese di adozione. Dal 2000 scrive racconti brevi pubblicati sul web. Collabora con riviste e fanzines clandestine. Trasferitosi a Roma, lavora nel sociale come operatore in un centro di accoglienza per minori. Scrive di notte. Ha pubblicato tre romanzi: Palude (Linea Bn, 2007, Ferrara), Eri tutto lungo (con il collettivo Alba Cienfuegos, Line Bn, 2008, Ferrara), La ballata del Tocororo (coautore Lorenzo Mazzoni, Linea Bn, 2009, Ferrara).
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Ieri pomeriggio sono andata in libreria, non una qualunque, la mia preferita, Capalunga di Agrigento. Fare due chiacchiere col proprietario è sempre piacevole. Vuoi mettere i consigli, le battute, il confronto che puoi trovare in una libreria indipendente con la fredda lista della spesa di un bookshop virtuale? Capita anche a me di ordinare testi on line, ma il più delle volte preferisco cercarli in posti ormai rari, quali librerie e mercatini.
Ieri ho acquistato “Crepe” di Luigi Bernardi e un bel libro per bambini, “Libretto postale” di Franco Matticchio, che ho regalato oggi e che ha avuto un’accoglienza molto buona.
Tra una chiacchierata e l’altra ho potuto sfogliare e ammirare un bel libricino,”Cherosene”, in edizione limitata, scritto da Beniamino Biondi e fatto, sì, fatto a mano (con materiale riciclato) da Lieve Malore.
Crepe, Luigi Bernardi, Il Maestrale Acquistalo QUI (-15%)
Libretto postale, Franco Matticchio, Vànvere edizioni.
Cherosene, Beniamino Biondi, Lieve Malore. Acquistalo QUI (-15%)
Mary Zarbo
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Da tanto tempo medito di scrivere un articolo al vetriolo e oggi ho deciso di buttare giù qualche parola.
Quando ho iniziato a fare gavetta nel mondo editoriale l’ho fatto con umiltà e voglia di imparare. Pian piano mi sono ritagliata un posto mio, piccolo ma non mi sono scoraggiata.
Ho ricevuto, insieme a Gianluca, le prime e-mail con gioia e voglia di fare.
Ho risposto a tutti con onestà, chiarezza e finora ho ricevuto gratificazioni soprattutto professionali e umane, poco legate al guadagno. In poche parole, non ci campo mica con quel che prendo come editor.
Tra tutte le richieste, la maggior parte erano (e continuano ad essere) di persone curiose e che volevano maggiori chiarimenti su tariffe, tipologia di manoscritti, metodo di lavoro, editori con cui siamo in contatto.
Ripeto, io e Gianluca siamo disponibili sempre e inviamo la risposta in tempi di solito celeri (i ritardi possono capitare a tutti).
Arrivo al punto. Che costa rispondere con un semplicissimo “Grazie”? Oppure con un “Scusate, ho cambiato idea”?
Per non parlare di chi, dopo aver ricevuto il lavoro, non ti versa il saldo!
Sono sempre di più quelli che si comportano così.
Non so se la prossima volta, in casi del genere, lascerò perdere come faccio di solito, o se manderò degli improperi: la misura è colma.
Mary
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Mi verrebbe da dire che Giulio Mozzi vuol proprio essere scaricato…
Segnaliamo l’uscita di “Madrigali rudimentali”, tre serie di componimenti in versi (“Chiusura”, “Madrigali rudimentali”, “Amici”) scritti da Giulio Mozzi alla fine degli anni Ottanta. “Un libro non di carta”, in formato Kindle, scaricabile su Amazon, al prezzo di 2,68 euro.
QUI su Vibrisse, Giulio Mozzi racconta che scrisse questi componimenti a 26 anni. E ci spiega il perché abbia deciso di farli leggere/pubblicarli (soltanto) ora. E, al solito, non è mai banale. C’è in lui, salda e lucida, (e forse per alcuni eccessiva), l’idea che uno scrittore debba sempre e comunque esporsi al pubblico. Con meno barriere possibili. Essere precisi (da qui il culto delle date), visibili (vibrisse), raggiungibili (via, numero civico e telefono riportati nelle edizioni dei suo libri), metterci la faccia. Perché soltanto chi ci mette la faccia è credibile fino in fondo. E, mi sa, la scrittura ha molto a che fare con la credibilità. E’ un atto di assunzione di responsabilità. Comunque, che piaccia o meno, per non farla lunga, quello di Giulio è davvero un darsi totale. Anche quando parla dell’eterno ritorno nella sua scrittura di forme, materiali, parole, sembra che, oltre a esplicitarlo a noi, lo stia dicendo a se stesso dopo averci rimuginato sopra.
Ecco, io interpreto questo suo modo di procedere, come se ogni suo ragionamento sullo scrivere fosse una tappa di avvicinamento a quel “Discorso attorno a un sentimento nascente” che gli arrovella la mente da un po’ e che tutti noi vorremmo poter leggere al più presto.
Giulio Mozzi è nato nel 1960. Abita a Padova. Ha pubblicato alcune raccolte di racconti (“Questo è il giardino”, Theoria 1993, Mondadori 1998; “La felicità terrena”, Einaudi 1996, Laurana 2012; “Il male naturale”, Mondadori 1998, Laurana 2011; “Fantasmi e fughe”, Einaudi 1999; “Fiction”, Einaudi 2001; “Sono l’ultimo a scendere (e altre storie credibili)”, Mondadori 2009, Laurana 2013.
Gianluca Minotti
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