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James Ellroy: la narrazione è randagia.

la dalia nera

James Ellroy:

La narrazione è randagia

Dalia Nera (1987) è il primo dei romanzi che compongono la tetralogia su Los Angeles dello scrittore americano James Ellroy, (dopo verranno, nell’ordine: Il grande nulla, 1988, L.A. Confidential, 1990, White jazz, 1992).

Una discesa nell’inferno senza possibili redenzioni.

Realtà e finzione si mescolano da sempre nei romanzi di Ellroy e ciò rappresenta una delle caratteristiche più interessanti dei suoi libri. Inutile dilungarsi sulla vita di James Ellroy, sull’omicidio della madre, sulla droga e sul carcere: è sufficiente leggersi quel diario spietato, disperato, struggente che è I miei luoghi oscuri. Ma forse no, non basterebbe, perché, se è vero che in tutti i libri di tutti gli scrittori c’è sempre qualcosa di autobiografico, ciò è vero, a maggior ragione, per i testi di Ellroy, incomprensibili, o meglio, non completamente comprensibili, senza tener conto di chi è stato James Ellroy, e soprattutto del Male che ha attraversato. Che la scrittura abbia un potere terapeutico è stato sostenuto da molti: ma raramente essa è stata altrettanto estrema nello stile, quasi una forma di violenza, di stupro perpetrato su di sé, con metodo, perizia. Con foga glaciale. Prima di giungere alla trilogia  sulla storia americana, (American tabloid, 1995;  Sei pezzi da mille, 2001; Il sangue è randagio, 2009), che sicuramente rappresenta l’apogeo di questa scrittura assimilabile ai colpi secchi delle mitragliate, già lo stile di Ellroy si era caratterizzato per il ritmo breve e assordante delle frasi. Ognuna delle quali era un segmento del trauma. Di quello personale, interiore, che però, dicendo se stesso, contemporaneamente, attraverso le storie raccontate, diceva il Trauma di una nazione intera – l’America. Una catena: questa la scrittura di Ellroy; una catena a maglie strette, che tu lettore non sai se pian piano si allenta e ti lascia respirare, o il contrario: perché ti senti sempre più stretto in una morsa mentre tutto corre verso uno scioglimento apparente.

Non c’è ‘fiction’ in Ellroy: è questo che lo distacca da qualsiasi genere e da qualsiasi scuola. E così, nel massacro della Dalia nera – fatto di cronaca realmente accaduto alla fine degli anni ‘40 a Los Angeles –, nell’omicidio di Geneva Ellroy, verificatosi una decina d’anni dopo, ma anche nella strage del Nite Owl in L.A. Confidential, non c’è nulla che dia il senso di un accadimento di genere. In Ellroy ogni fatto è collegato dal filo rosso dalla corruzione di un intero sistema e di un’intera società. E dell’uomo, certo.

il lungo addio

Ci ricorda Hammett, o il più malinconico ed esistenzialista Chandler, in cui almeno, però, Marlowe conservava un suo codice di regole etico-morali. A proposito di Chandler e di Hammett, il “feroce” Ellroy sostiene che: «Chandler scriveva trame poco plausibili, che spesso non tornavano. Era più che altro concentrato sulle stile. Scriveva dell’uomo che avrebbe voluto essere. Hammett invece scriveva dell’uomo che aveva paura di essere».

In realtà, però, se ci divertissimo a fare un paragone tra il Chandler di Un lungo addio e l’Ellroy di Dalia nera, scopriremmo interessanti analogie. Innanzitutto un’amicizia virile, in entrambi i casi tradita, ma comunque vincolante. Anche i luoghi sono spesso gli stessi: se il “Victory Hotel” tornava anche in L. A. Confidential, è il Messico di confine con Tijuana dove si consumano i destini sia di Terry Lennox che di Lee Blanchard, a prefigurarsi come non luogo. Dico “prefigurarsi” perché io, ormai, quando da lettore penso al Messico – al deserto del Messico – penso, non posso non pensare, a Roberto Bolaño, a La parte dei delitti di 2666, dove egli dettaglia, uno per uno, le centinaia di omicidi di donne avvenuti a Santa Teresa/Ciudad Juárez a partire dagli anni Novanta. Ma più delle singole analogie, ciò che emerge in entrambi i libri – che Ellroy lo voglia o meno – è appunto quel senso di un romanzo come canto funebre di una condizione umana, in cui il marcio è un cancro che corrode ogni cosa: l’amore e l’amicizia in special modo. E la disillusione di Marlowe quando scopre che Lennox è ancora vivo e ha messo in scena la sua morte, è la stessa di Dwight, quando Key gli racconta che l’assalto in banca era stato un suo piano e che i complici, in un modo o nell’altro erano stati eliminati da lui. Certo, a Dwight resta Kay, l’anello di congiunzione con Lee, mentre a Marlowe non rimane niente.

 O meglio, qualcosa rimane. Rimane che la narrazione è randagia e a un certo punto scavalca i confini delle proprie pagine per riversarsi su altri libri, su altre storie, prolungandole, prolungandosi, in una contaminazione reciproca. Perché poi non sai più chi veniva prima e chi dopo e da dove tutto è cominciato, e se è cominciato nella realtà o nella finzione, e allora ecco che nel libro di Jim Thompson, Un uomo da niente (1954; Einaudi, 2013) esattamente a pagina 72, il protagonista Clinton Brown, che lavora per un giornale, a seguito dell’assassinio della moglie, dice: «Dobbiamo farlo signore», (cioè, dobbiamo pubblicare la notizia). «Non possiamo passare sotto silenzio una cosa simile.  È un altro caso Dalia Nera. I giornali di Los Angeles ci si tufferanno sopra. Sarà in prima pagina dappertutto. Non possiamo rinunciarci, neanche se lo volessimo».

Gianluca Minotti

Roberto Bolaño, 2666: lettura in progress

Tre anni fa la lettura di Roberto Bolaño diventò una lettura condivisa grazie a un gruppo su facebook, Quelli folgorati da “2666”.  Nel giro di pochi giorni ci furono più di novanta iscritti, che so non essere una cifra astronomica, ma è pur sempre dignitosa.

Da oggi su Literaid intendiamo riproporre gli articoli che vi sono apparsi, con relativi commenti e discussioni. Forse perché anche a distanza di (non) tanto tempo, sentiamo l’esigenza di tornare a leggere Roberto Bolaño e di spingere chi di voi ancora non l’ha fatto a intraprendere il viaggio che sono i suoi libri. Una magnifica metafora della dispersione di una generazione sudamericana perduta tra sogni rivoluzionari e spietate repressioni: questo sono i libri di Bolaño.

2666

Scambi (Prima sezione: “La parte dei critici”.)

Mi fermo a pagina 126 perché mi viene alla mente, prepotente, un’immagine: quella di una serie di binari che s’intersecano, senza che si riesca bene a individuare dove propriamente siano gli scambi.
Voglio dire che fino a questo punto mi pare di poter dire che il romanzo di Bolaño ha subìto almeno tre variazioni, senza che sia possibile capire esattamente dove si sono verificati questi spostamenti, in che punto, a che pagina.
L’incontro dei quattro protagonisti (Pelletier, Espinoza, Morini, la Norton) con i romanzi dello scrittore Arcimboldi, rappresenta il primo elemento che dà il via alla storia.
Un primo cambio lo abbiamo quando i rapporti tra Liz Norton, Pelletier ed Epinoza assumono un’importanza centrale, e di conseguenza Morini (ma lo stesso Arcimboldi) resta nell’ombra.
Il terzo spostamento si verifica al momento dell’incontro con il pittore.
Qui anzi succede una cosa stranissima: improvvisamente su Morini, su ciò che il pittore gli dice all’orecchio, sulla sua scomparsa – seppure solo di qualche giorno – si addensano misteri, e la storia pare voler scivolare ancora da un’altra parte.
Ora, seppure è vero che questi spostamenti, variazioni, accadono in molti romanzi, mi pare di intuire che qui, però, essi succedono in maniera del tutto diversa.
Non so bene spiegare questa cosa, è una sensazione: però mi sembra che nel libro di Bolaño tutti gli spostamenti successivi sono già contenuti nei sintagmi precedenti. Già dal’incipit, forse. Perché quella di “2666” pare essere una narrazione costruita senza soluzione di continuità.
E questo nonostante le cesure del paratesto, nonostante i paragrafi e la divisione del libro in cinque diverse parti.
E se è così, se la narrazione restituisce l’illusione di qualcosa che prende forma da sola, che può cambiare strada in qualsiasi momento, tutto questo, che pure sarà il frutto di una struttura voluta dall’autore, accade grazie alla scrittura, per mezzo di essa, in essa.
Per questo dico che forse tutte le possbilità successive della storia sono già contenute nelle frasi scritte in precedenza.
O meglio: ogni frase, ogni proposizione, dice se stessa e nello stesso tempo fa da fondamenta a ciò che verrà dopo.
Per questo è difficile individuare i punti di svolta della narrazione: perché se uno si mettesse lì a rintracciarli, sarebbe costretto a voltare all’indietro le pagine, una dopo l’altra, senza arrivare a granché. Se non alla copertina, che dice:

Roberto Bolaño
2666

 Gianluca Minotti

 

 

Da Sopra eroi e tombe…

Sopra eroi e tombe

Ernesto Sábato

Einaudi

€ 26

pp. XXVI – 584

I

Prendendo spunto dalla bellissima prefazione di Ernesto Franco a Sopra eroi e tombe, (1961), di Ernesto Sábato, pubblicato per la prima volta integralmente da Einaudi nel 2009 (collana “Letture Einaudi”), proviamo a tracciare un filo rosso che leghi lo scrittore argentino a un altro grande scrittore, Roberto Bolaño.

A proposito della speculazione filosofica di Sábato, la cui formazione è scientifica (si laureò in Fisica), Ernesto Franco scrive:

«Se si arriva alla scienza per ansia di verità e conoscenza, si può scoprire presto che i suoi strumenti danno accesso a verità parziali e che la totalità dell’uomo è conoscibile solo attraverso il contraddittorio percorso dell’arte, “perché i grandi problemi della condizione umana non sono adatti alla coerenza, ma sono accessibili unicamente a quell’espressione mitopoietica, contraddittoria e paradossale, affine alla nostra esistenza”.» (Il virgolettato è di Sábato).

Sopra eroi e tombe narra la storia di due ragazzi, Martin e Alejandra, i quali, come osservato nella prefazione, si trovano ma non si incontrano (il loro è piuttosto “un disincontro”).

Già nella prima pagina del romanzo, da un frammento di una notizia di cronaca nera, il lettore apprende della morte violenta, sacrificale di Alejandra.

Si potrebbe dunque pensare a un romanzo che tratta di amore e morte.

In parte sì, ma non soltanto.

Il narratore dà voce al dramma, alternando i piani temporali attraverso l’introduzione di un personaggio, Bruno, che sembra essere il vero narratore e depositario della storia. Le riflessioni di Bruno sono spostate in avanti nel tempo, in un tempo futuro in cui tutto è già accaduto e da dove egli misura lo scacco di Martin alternandolo a quello di decine e decine di altri personaggi, tutti “naufraghi” in una città, Buenos Aires, che è “un fenomeno psicologico”.

Scacco, ma anche scarto.

Scarto tra l’indole psicologica degli uomini e la concretezza di una realtà che si fa tale seguendo itinerari imponderabili per la ragione umana.

L’inutilità delle speranze di Martìn nasce da qui. Nasce e si fa intreccio narrativo grazie alla sapienza di Sábato nell’alternare i piani temporali, in modo che tutti i pensieri pensati da Martin nel presente (nel presente della sua storia/non storia con Alejandra) siano ridimensionati e spazzati via sia da quanto il lettore sa che accadrà (l’incipit/epilogo), sia dalle riflessioni ciniche, divertite, malinconiche di un Bruno che sembra essere il solo tra tutti i personaggi ad avere piena e dolorosa consapevolezza di come va il mondo.

Che sia lui, Bruno, la vera vittima di questa vicenda?

Lui che tra l’altro è stato il compagno della madre di Alejandra?

Ora, quello che ci interessa in quanto lettori (e aspiranti scrittori) è il tentativo attuato da Sábato di comporre una sorta di romanzo totale partendo dall’assunto che qualsiasi rappresentazione della realtà è per sua stessa ammissione incompleta e quindi non attinente alla verità.

A rigor di logica verrebbe da pensare che se Sábato voleva proprio scrivere un romanzo “totale”, da tutto doveva partire tranne che da un assunto del genere. Assunto che pare proprio inconciliabile con l’obiettivo.

Eppure non è così: Sábato l’ha pensata bene. Lui, che non a caso ha studiato fisica, non fa che applicare in letteratura il principio di indeterminazione di Heisenberg in base al quale, c’è poco da fare, la realtà è conoscibile soltanto per approssimazione:

«L’idea di storia totale è al lavoro. Intorno  Martìn e Alejandra germoglia un universo di storie e personaggi, ciascuno con il proprio linguaggio e, in fondo, con il proprio narratore. Perché è proprio quando la verità è assente e forse impossibile che la sua ricerca si fa incessante. Ogni personaggio ascolta o racconta la sua parte di storia e la storia di tutti passa di mano in mano come in un gesto infinito dove ogni persona cerca la propria verità in quella dell’altro. In questi personaggi della solitudine c’è come una comunione terrena.» (E. Sábato).

Ognuna delle vite raccontate in questo romanzo è una sorta di detrito: il lettore incontra uomini e donne senza sapere di preciso da dove provengono e verso quale destinazione sono diretti. Un po’ come accade nella vita reale. Ovverosia – e questo è un altro paradosso – quanto più si sgretola in arte la presunta linearità e organicità della realtà, tanto più essa si lascia per sottrazione disvelare.

Questo procedimento, e lo vedremo bene nel prossimo post, è portato alle estreme conseguenze da Roberto Bolaño soprattutto nella composizione dei suoi due grandi romanzi, I detective selvaggi e 2666. Romanzi in cui lo scrittore cileno, attraverso una continua depredazione, accumula tracce, segni, orme di un’umanità in cui tutti sono esuli, sradicati, dispersi, non si capisce se in continua fuga da se stessi o alla ricerca di. Fuga e ricerca che a conti fatti sono la stessa cosa.

To be continued… (QUI)

Gianluca Minotti