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Che cosa significa aspettare

Apro un libro e leggo. Sono cose che faccio spesso. Aprire un libro e poi leggere. Ché uno potrebbe pensare che quando apri un libro, per forza leggi, ma non sempre è così. E comunque ormai il libro l’ho aperto e quindi non mi resta che leggere:

«Sì, lo so» annuì Mario. «Ci è venuto mio fratello.»

«No, suo fratello non si è visto.» Terragni lo fissò al di sopra delle lenti. «Doveva intervenire anche lui, ma l’ho sostituito io.»

«Come?» mormorò Mario. «E non vi ha avvisato?»

«No. Francamente mi ha un po’ stupito. Doveva presentarsi alle quindici e parlare quarantacinque minuti».

«È strano» disse Mario perplesso. «Non è da lui.»

«So che alle diciassette e trenta aveva un altro appuntamento» continuò Terragni. «Mi aveva preannunciato che non poteva rimanere. Lei sa chi doveva incontrare?»

Mario, vedendo il viso contratto di Silvia, esitò:

«Era un appuntamento privato, credo.»

Terragni abbassò la testa.

«Potrebbe essere sopravvenuto un imprevisto.»

«Però avrebbe telefonato!» intervenne Silvia, turbata.

Terragni la osservò con un interesse nuovo:

«Non sempre è possibile farlo, mi creda. Mi è successo più volte.»

Si voltò verso Mario:

«E la moglie?» chiese con aria allusiva. «Che cosa dice la moglie?»

Mario scosse la testa:

«Non sa niente.»

«Normale» disse Terragni.

Restò un po’ in silenzio. Poi aggiunse:

«Io non credo sia successo qualcosa di grave. Aspettiamo a preoccuparci.»

«Aspettiamo che cosa?» chiese Silvia.

Terragni la guardò:

«Aspettiamo domani.»

E qui finisce un capitolo, con la battuta: “Aspettiamo domani”. A me di aspettare domani per vedere cosa accadrà, non va. È chiaro come qualcuno, anche se soltanto da poche ore, sia scomparso, mettendo gli altri in allarme. Chi è questa persona e dov’è andata? Prima di continuare a leggere, lasciando il dito per tenere il segno, chiudo il libro.

La grande sera di Giuseppe Pontiggia. Bene. Avrei voglia di cominciare il libro dall’inizio, come generalmente si fa, e invece, una volta riaperto dove l’avevo lasciato e voltata pagina sono avvinto dal titolo del capitolo e non posso “aspettare” oltre.

VIII

CHE COSA SIGNIFICA ASPETTARE

 

Etimologicamente significa guardare verso. Ad-spectare.

È un verbo che può rendere sopportabile o insopportabile la vita.

L’attesa della felicità è un inganno, l’attesa del dolore non può essere ingannata. È solo un altro inganno del linguaggio.

Gli uomini lo sanno così bene che paventano l’incertezza dell’attesa più che la certezza del male. E ci sono quelli che, alla paura di precipitare, preferiscono l’abisso del vuoto.

Aspettare significò per Terragni aspettare il sonno. E poiché il sonno non arrivava, pensò al significato della parola arrivare. Si alzò cauto dal letto, per non svegliare sua moglie, e incespicò in una sedia, che cadde sul pavimento. Lei balzò in avanti, le braccia carnose sul lenzuolo, gli occhi dilatati:

«Che cosa fai?»

«Niente. Vado a cercare una parola.»

«Come?» chiese lei esterrefatta.

Aveva già assunto un tono teatrale, convinta che la recitazione la rendesse interessante.

«Cerco una parola sul dizionario.»

«Quale parola?» Era ripiombata sul letto.

«Arrivare» rispose Terragni in corridoio.

Entrò nello studio semibuio, le librerie a vetri che incombevano dalle pareti. Si sedette alla scrivania e accese la lampada liberty, con le sue ghirlande di bronzo.

Il dizionario era il libro che leggeva più spesso. L’origine delle parole lo affascinava, soprattutto il mistero delle radici, legate ai primi passi dell’uomo, così remoti, ma anche così vicini. Il rammarico per il tempo che non vi aveva dedicato era mitigato dal presentimento che non sarebbe stato sufficiente. E il coraggio di ammetterlo non sapeva se era una conquista o una resa. Doveva morire tra poco e ancora non sapeva l’essenziale.

«Che cosa hai trovato?» gli chiese sua moglie, completamente sveglia, dalla stanza.

«Portare a riva» rispose Terragni, alzandosi dalla scrivania.

Aspettare significò per Mario accendere il televisore, nel salotto in penombra, sopra la città illuminata, e premere continuamente il pulsante per passare da un programma a un altro: automobili che precipitavano in mare da una scarpata precedevano interni minuscoli dove lei, accucciata in un angolo, diceva: “Tu non mi hai capito”. Cantanti violetti che si dimenavano tra zaffate di vapori si sfocavano in una strada lungo il fiume dove lui abbassava lo sguardo dicendo: “Il problema è un altro”. E famiglie euforiche ballavano intorno a un tavolo, un budino al centro, sotto gli occhi ilari di un idiota anziano in poltrona. Aveva letto in una rivista sulla comunicazione che premere continuamente il pulsante era un segno di onnipotenza; invece per lui era un segno di impotenza di fronte allo spettacolo della stupidità.

Stanco di esercitare quel potere illusorio, spense il televisore e, a occhi chiusi, vide suo fratello che si gettava da un ponte altissimo su una distesa marina, per poi librarsi con le braccia e le gambe aperte, il paracadute pubblicitario che si spalancava sopra di lui. Forse aveva voluto una vacanza insolita, una infrazione liberatoria.

Suo fratello gliene aveva parlato poco tempo prima. Si erano incontrati in un bar di largo Treves, al tramonto, e mentre aspettavano le bibite, davanti al banco di alluminio, gli aveva confessato, il viso affaticato:

«Non ne posso più.»

«Anch’io» gli aveva risposto. «Ma di che cosa?»

«Di tutto» gli aveva detto suo fratello. «Vorrei fermarmi.»

«Una vacanza?»

«No, non proprio una vacanza, che lascia tutto come prima» gli aveva risposto. «Ti ricordi che cosa dicevamo da ragazzi, per interrompere il gioco? Arimorta. Io vorrei dirlo adesso.»

Forse era stanco di definire insensata la propria vita, come si fa solo per poterla accettare, e si era preso improvvisamente un giorno insensato.

Cercò il telecomando sul tavolo di cristallo, ma non lo trovò. Cercò a tastoni sul pavimento. Da quanto tempo continuava a smarrire gli oggetti. Era accanto a lui, sul divano. Quando spense l’apparecchio, vide fuori dai tetti il chiarore che saliva dalla città. Poi il viso di suo fratello che sorrideva come lui, nel buio.

Aspettare significò per Giulia non pensarci: dove il non stava semplicemente per il non, senza il coraggio di quei verbi servili (come non volle o non poté o non seppe pensarci) che la psicologia chiama in soccorso per mitigarne la durezza. Non ci pensò è semplice e impenetrabile. Non volle o non poté o non seppe pensarci è distraente e familiare. Ma l’illusoria voragine del profondo ci fa apparire più profonda la seconda versione, mentre è solo più rassicurante.

Così l’inconscio si è trasformato dal luogo del delitto in un luogo diverso, cioè in un alibi. E l’abuso di un avverbio come inconsciamente rivela, più che la percezione dell’occulto, la paura dell’evidenza.

Quante volte, nei rapporti d’amore, il più debole preferisce sostituire alla minaccia del non la spiegazione del servile. Ma quante volte, dietro alla distrazione o alla amnesia, non c’è altra motivazione che la loro presenza. Come dietro al silenzio non c’è solo l’omissione o la rinuncia, ma il vuoto.

Aspettare significò per Silvia telefonare. Prima al pronto soccorso di sei ospedali, poi alla sede centrale della polizia. Ogni volta scandiva in modo chiaro nome e cognome e ogni volta le chiedevano di ripeterli: non per evitare uno sbaglio, ma per imporre una distanza. A una nuova richiesta di chiarimento, riappese il telefono, con un’aggressività più esplicita, ma non meno intensa di quella del suo interlocutore.

Allora telefonò a un’amica.

Una delle funzioni più antiche dell’amicizia è d’ingannarci su noi stessi. Essa ci rassicura che le speranze sono legittime e i timori infondati. A essi tanti malati devono, contro ogni evidenza, un viso sano, un’aria sollevata e un miglioramento lento, ma costante, che culmina non poche volte con il decesso. A essa devono una sopravvivenza immaginaria tanti scrittori, cui il viatico di amici soccorrevoli dà l’illusione che non saranno dimenticatoi nei secoli. A essa tanti amanti delusi devono la consolazione di meritare un amante diverso. Non importa che questa sorte sia più odiosa di quella che non si erano meritati. L’importante è il verbo meritare, non il suo complemento, che spesso viene differito a un’altra vita.

L’amica le rispose quello che lei sperava.

Suppose, infatti, mentre guardava la sveglia che segnava le tre e cinque, un incontro d’affari improrogabile. E l’appuntamento mancato con Terragni? La spia di una frattura iniziale. E quello mancato con lei? Una reazione di fuga, naturalmente inconscia, quanto più forte il pericolo.

La parola “inconscio”, affiorava benefica, salutare, amica. E lei, dopo averla ascoltata, si sentì placata, gli occhi gonfi di pianto e di stanchezza.

Dopo avere chiesto scusa due volte, riattaccò il telefono. E chiuse gli occhi senza accorgersene, inconsciamente appunto, convinta e sfinita. Pronta però a impegnare tutte le energie, come accade quando la prova ne viene differita.

Che cosa significa aspettare per poi un giorno leggere questo libro. La cui lettura devo a Giusy che qui ringrazio. Come ringrazio Mary, Claudia, Manuela e Giovanna, ché oggi tutte mi hanno aiutato.

Gianluca Minotti

Sul perché certi libri proprio non finiamo di leggerli

 

IL LETTORE

(NON mp3)

IMPERFETTO

 


Io sono un cattivo ragazzo: leggo più libri insieme e non sempre riesco a finirli. Tempo fa questa cosa mi faceva sentire in colpa, come mancassi di rispetto agli autori; oggi, invece, mi fa sentire ugualmente in colpa. Ma non verso gli autori. Verso me stesso. Potrei fare un elenco di libri mai terminati, ma ve lo risparmio. Vi dico solo, per esempio, che non ho mai finito Anna Karenina. Mi mancano poco più di cento pagine, o meglio: sono anni che lo leggo e rileggo fino a un certo punto, sempre, rigorosamente lo stesso, e poi mi fermo. Non perché non mi piaccia, tutt’altro: mi fa impazzire, ci perdo la testa, non capisco più niente, mi viene quasi da parlare in russo, mi faccio crescere la barba e indosso pellicciotti, però poi mi fermo. Mi fermo prima che sia troppo tardi. Prima, appunto, che arrivi la fine. Insomma, credo di comportarmi così con Anna Karenina perché mi rifiuto di pensare che possa finire – non voglio che Anna muoia, va bene? – giacché, se è vero come si dice che certe storie non finiscono mai, allora, siccome io sono, sì un cattivo ragazzo, ma tutto sommato coerente, le lascio sospese. Tutto questo per dire che a volte i libri che non terminiamo non sono soltanto quelli che ci annoiano, ma anche quelli che più entrano in noi, per cui, nel nostro procrastinarli c’è come il tentativo di non esaurirli. Sapere che magari un giorno, quando proprio non ci resterà più niente da aspettare, sperare, nulla in cui credere, pochi spiccioli per fare granché e pochi treni da prendere (per dove?, ci aspetta qualcuno?), be’, avremo sempre la nostra cara Anna a cui attingere. Che, espressa così, pare una bella cosa; ma, ripeto, siccome l’Anna di cui stiamo discutendo non fa proprio una bella fine, siamo in realtà dei sadici. È dal suo sacrificio, dal doverne constatare la morte che noi auspichiamo di riappacificarci con la vita.

È per questo che mi sento in colpa verso me stesso. Al punto che sarebbe meglio, invece di iniziarne di nuovi, se terminassi i libri cominciati. Certo, certo, sarebbe meglio, ma come si fa? Perché poi accade anche un’altra cosa: certi libri, certi bei libri – e anzi, più fanno questo scherzo, più sono ottimi libri – rimandano ad altri libri, raggiungono l’apice proprio quando ne richiamano altri, a volte citandoli direttamente, altre suggerendoli. Magari non ti fanno proprio il nome e cognome dell’autore, non ti scrivono titolo dell’opera ed editore, però ti fanno accendere una lampadina e ti distolgono. Pare una contraddizione constatarlo, ma, ripeto, è così, e se mentre leggi un libro quello è perfettamente concluso in se stesso, esclude tutti gli altri, finanche esclude la vita, che tu te lo leggi dall’inizio alla fine in due ore, seppure non sembrerebbe, non è un buon libro, non lo è affatto. Simula, fa finta di esserlo, però non lo è. E quando te ne accorgi? Non subito te ne accorgi. Te ne accorgi con il tempo. Perché poi a quel libro iniziale, dopo che hai fatto tutto il tuo giro, a quello che inizialmente ti aveva distolto, tu ci torni, mentre a quello apparentemente concluso in se stesso, no.

Ora non so se avete tenuto il filo di questo sragionamento, però se io sono scontento del fatto di non riuscire a finire certi libri, è anche perché sono consapevole di essermi infilato in un gioco di rimandi dal quale rischio di non venire fuori.

Gianluca Minotti

L’esordio di Manuela Giacchetta

 

 

 

 

 

LE INTERVISTE DI LITERAID


MANUELA GIACCHETTA: LEGGERE, SCRIVERE E FARE DI CONTO (CON LA VITA)

 

 

 

Il blog Literaid ha aperto i battenti da poco: siamo degli esordienti, insomma, e per inaugurare la sezione interviste iniziamo con un’esordiente, Manuela Giacchetta, il cui libro è alle stampe proprio in questi giorni.

Ciao Manuela, benvenuta a Literaid! La tua trepidazione è anche la nostra: quando uscirà il libro, titolo ed editore.

Il libro s’intitola “Bowling e margherite”. Sarà edito da Las Vegas Edizioni e uscirà tra la fine di gennaio e i primi di febbraio.

Dunque ci siamo davvero: E il tuo stato d’animo?

Sono in un perenne stato di felicità ansiosa. Felice per il fatto di esordire, e in ansia per l’effetto che avrà, su di me, questo fatto nuovo di essere letta da un pubblico. Non per le critiche, che certo ci saranno, quanto per il concetto di essere “esposta”.

Già, esordire significa anche oltrepassare un confine dopo il quale non ci si può più nascondere. Ci dai qualche anticipazione sul romanzo?

Il protagonista è Lorenzo, un ragazzo di 28 anni che sta attraversando una fase piuttosto apatica della sua esistenza: non ha ancora metabolizzato i compromessi con cui si scende a patti nella vita, odia il suo lavoro e, per di più, è stato appena lasciato dalla sua ragazza di cui è ancora innamorato. Invece di affrontare la situazione, Lorenzo si rifugia nella pigrizia, soprattutto mentale –  tanto che sono anni che si trascina la lettura dell’Ulisse di Joyce –  e si limita a subire la realtà attorno a lui armato di sarcasmo e pessimismo. Tutto però inizia a cambiare quando scopre di avere un’ammiratrice segreta. La curiosità per l’inaspettato e il suo amico Cionco, lo guideranno verso la consapevolezza che è il momento di agire.

Mentre raccontavi la trama mi è venuto in mente che anche io mi trascino da anni L’Ulisse di Joyce. Però, al contrario di Lorenzo, non credo di poter avere ammiratrici segrete, e d’accordo che essendo segrete…. Seriamente: sarà un luogo comune, ma com’è stato declinare la scrittura al maschile?

Ti racconto questo aneddoto curioso: quando Andrea Malabaila (il mio editore) ha letto il romanzo, credeva che il nome “Manuela Giacchetta” fosse uno pseudonimo che nascondesse l’identità di un uomo. Mi ha fatto sorridere molto questa cosa. A me viene naturale impostare una storia con un protagonista maschile.  Anche se sì, certo, alcune volte non è semplice ragionare “al maschile”.

Literaid si occupa specificatamente di esordienti: la nostra missione è quella di cercare uno sbocco editoriale a chi scrive buone storie. Tu come sei arrivata all’editore, che strada hai percorso?

Ho fatto tutto da sola. Dato che ritengo che l’invio a tappeto sia soltanto uno spreco di risorse e di energie, ho selezionato alcune case editrici la cui linea editoriale corrispondeva al genere del mio romanzo. E che, ci tengo a dirlo, fossero contrarie all’editoria a pagamento. Mi sembra  corretto, comunque, citare i due siti cui mi sono affidata in questa mia ricerca, cioè il Writer’s Dream e Galassia Arte di Andrea Mucciolo. Ho poi inoltrato il testo con la mia lettera di presentazione e ho messo l’umore in fase di stand-by. Dopo appena un mese, la Las Vegas Edizioni mi ha contattata.

Quindi tu sei la riprova che a volte a qualcuno accade: accade di mandare il proprio manoscritto a una casa editrice e, pur non conoscendo nessuno, non soltanto ottenere una risposta in tempi brevi – hai parlato di un mese – ma una risposta più che buona!

Direi proprio di sì. Credo che la mia esperienza infonda un bel po’ di fiducia a chi sta cercando un editore per il proprio lavoro.

Non so se scrivi da sempre, e a quanto tempo fa risale “Bowling e margherite”, e comunque, la pubblicazione cambierà anche soltanto il tuo approccio alla scrittura?

Non ho ricordi di una “me” che non scriva. Quindi, credo di scrivere davvero da molto tempo. “Bowling e margherite” è una storia che risale a una decina d’anni fa. Era una prima stesura che avevo abbandonato. Nel rileggerlo, con il distacco che solo dieci anni di vita ti danno, ho riscontrato un testo divertente che forse valeva la pena portare avanti. E pubblicare, sì, ha già cambiato il mio approccio alla scrittura. Credo sia normale. La pubblicazione ti dà una energia tutta nuova. Quando scrivi, spesso te lo chiedi se il tuo lavoro valga, se merita di avere dei lettori. E se una piccola casa editrice come la Las Vegas, che pubblica rischiando di proprio, ha deciso di investire nel mio romanzo, allora questo, mi dico, vorrà pur dire qualcosa. Quindi sì, l’approccio è già cambiato, perché ora investo ogni mia energia per difendere il mio spazio quotidiano dedicato alla scrittura.

Qual è il tuo sguardo sul mondo, da che angolazione ti poni, a quali storie sei maggiormente interessata?

Sono una persona cui piace molto stare per conto proprio. Ma dato che vivo nel mondo, il mondo poi lo guardo dal di dentro. E non lo osservo in funzione di quello che potrei scriverne. Mi limito a viverlo, che è già faticoso di suo. Le storie più belle, sono sempre quelle che la gente non ti racconta. Sono quelle nascoste nelle piccole ossessioni e nelle follie.  Ecco, quelle sono le storie che mi appassionano di più.

Chiacchierando, mi hai accennato prima a come sia per te  fondamentale, quando trovi una buona storia, lasciare un certo margine all’improvvisazione. Cosa intendi esattamente?

Intendo dire che i personaggi, appena nati, non sanno ancora bene chi sono. Io stessa non ne ho idea. Non conosco i loro gusti, le loro manie, i loro ricordi. Li lascio vivere, parlare tra loro, scrivo pagine di testo che poi verranno cancellate, che non sono funzionali alla storia, ma che mi permettono soltanto di conoscerli. Di fatto, fanno tutto loro, io devo solo stare a guardare. Poi è incredibile come, a volte, un personaggio si mette in testa di fare una cosa e, anche se io ho tutta l’intenzione di spostare la storia altrove, lui alla fine fa quello che vuole. Io non ho polso con i miei personaggi. In questo dovrò migliorare.

Anche chi scrive, e forse a maggior ragione perché scrive, è prima di tutto un lettore. Si dice che il lettore felice è colui che, guidato da una sorta di sesto senso, (Elias Canetti parlava di “coercizione”) legge i libri giusti al momento giusto, come fossero scritti appositamente per lui, ricavandone una sorta di rivelazione. Un mettersi reciprocamente in ascolto. Capita qualcosa di analogo anche a te? E quali sono le tue letture preferite?

Capita anche a me, sì, con Marguerite Duras. Ogni volta che la leggo è come se lei leggesse me. È una sensazione strana. Adoro, inoltre, il ritmo della frase di Alessandro Baricco. E la “pienezza emotiva” di Tondelli. Mi sono divertita con i libri di Nick Hornby. Mi sono emozionata con La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo di Audrey Niffenegger. Mi sono stupita con Il paese delle ultime cose di Paul Auster. Mi sono persa nel deserto australiano con Robin Davidson nel suo Orme.

Confessa: non vedi l’ora di pubblicare per entrare nel giro degli aperitivi letterari, giusto? Ma sei pronta, hai letto – che ne so – tutto Michail Bachtin?, guarda che te lo chiedono…

Premetto che non ho una gran passione per la figura dello scrittore che si vanta di frequentare certi circoli, che ascolta solo musica inascoltabile e che vede solo film partoriti dalla mente malata di registi dai nomi impronunciabili. Insomma: parlo dello scrittore che si propone alternativo a tutti i costi. Ecco, a quello stereotipo e al suo mondo esclusivo, io non sono interessata. E poi tanto, io Michail Bachtin non l’ho letto. Quindi, vedi? non ho la minima speranza.

A parte Bachtin e gli aperitivi, l’importante è avere l’entusiasmo per scrivere e per vivere. Perché, a parte scrivere, vivere non è mica da buttare via! Ascolta, leggerai la recensione che ti faremo qui su Literaid?

Sono già curiosa. Anche perché ci sono buone possibilità che siate i primi. E, per un’esordiente, l’emozione di leggere la prima recensione credo possa essere equiparata soltanto a quella di rilasciare la prima intervista. Sì, sì, la leggerò! Sono curiosa, eccome!

Be’, altrettanto noi di leggerti! Ciao Manuela, e grazie.

Ciao, a presto!

Gianluca Minotti

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E’ un libro (sì, vabbè, ma a che serve?)

E’ un libro

Lane Smith

Rizzoli

pp. 32 illustrato

€ 12,00

2010

 

 

 

 

 

 

Una scimmia se ne sta comodamente in poltrona a leggere L’Isola del tesoro.

Seduto di fronte, l’asino la guarda un po’ scettico e, mentre smanetta al pc, la mitraglia di domande:

«Ci vai su Twitter?»

«Ci fai lo scroll?»

«Hai bisogno della password?»

E la scimmia, ogni volta paziente, nonostante forse non chieda di meglio che essere lasciata in pace, risponde:

«E’ un libro».

Scritto e illustrato da Lane Smith, in maniera godibile, brillante, fulminante, incisiva, questo albo mette in scena il duello, proprio dell’era digitale, tra il libro e i supporti tecnologici e-reader.

La scimmia, insomma, terminerà di leggere L’Isola del tesoro o, messa alle strette dall’incalzare dell’asino, non potrà non riconoscere che in fin dei conti un libro è talmente antiquato da non essere neanche analogico?

Da leggere assolutamente (con la speranza di non essere interrotti). Per bambini dai cinque anni, ma consigliato anche ai grandi e, soprattutto, alle scimmie e agli asini iper tecnologici.

Gianluca Minotti

Questo è il sito di Lane Smith

e questo il book trailer del libro che in America sta spopolando.