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… a I detective selvaggi

I detective selvaggi

Roberto Bolaño

Sellerio(1998

pp. 848

 

I

Da Sopra eroi e tombe…

II

A pagina 21 de I detective selvaggi leggiamo: «Secondo Lima gli attuali realvisceralisti       camminavano all’indietro, di spalle, guardando un punto ma allontanandosene, in linea retta verso l’ignoto.»

Tutti i personaggi dei racconti e dei romanzi di Bolaño sono come sfiorati, colti in un dato momento prima di sparire verso l’ignoto.

Noi poveri lettori non sapremo mai quale sarà il loro destino.

E per questo che molti racconti di Bolaño s’interrompono con un taglio netto: in Jim, ad esempio, tratto da Il gaucho insostenibile, la voce narrante conclude ammettendo che (Jim): «Non l’ho mai più rivisto».

Ci troviamo insomma di fronte a due scrittori, Ernesto Sábato e Roberto Bolaño che nella loro ricognizione sul mondo procedono per riduzione.  Ma mentre in Sopra eroi e tombe la realtà, seppur sgretolata, è tenuta insieme da un narratore diegetico – Bruno – e da uno extradiegetico, ne I detective selvaggi di Bolaño essa si disperde in centinaia di personaggi parlanti, narratori di se stessi e testimoni “scorretti” delle vite altrui.

Città del Messico, notte del 31 dicembre 1975: I detective selvaggi, nonché sedicenti poeti, Ulises Lima e Arturo Belano, fuggono lungo le strade dell’America Latina alla ricerca di Cesárea Tinajero, fondatrice del realvisceralismo, corrente d’avanguardia di cui si considerano eredi. Nel mezzo della loro indagine, i resoconti di coloro i quali, a partire da quella notte e per un arco temporale di vent’anni, li hanno incontrati in più parti del mondo. Amici, amici di amici, poeti, presunti tali, conoscenti, critici, tutti chiamati a dare il loro contributo per sapere cosa ne sia (stato?) di Lima e Belano. Che non prendono mai direttamente la parola. Sono i protagonisti, dovrebbero esserlo, eppure restano materia di conversazione altrui. Sembrano essere ovunque, avere quasi il dono dell’ubiquità, eppure non stanno da nessuna parte, se non nei discorsi degli altri. E infine, come accade in questi casi, più persone dicono la loro parziale verità, più essa si fa nebulosa: si può infatti dar credito a tali voci sui detective selvaggi, soprattutto tenendo conto che i vari personaggi, invece di raccontare di Lima e Belano, sono in realtà interessati a parlare di sé?

Quanto però accade ai due presunti protagonisti del libro, accade agli stessi personaggi monologanti, i quali, così come entrano in scena, poi si ritirano nell’ombra, nel silenzio, riapparendo magari nei racconti degli altri, ma per quello che sono: a loro volta comparse in una fitta, infinita rete di rapporti in cui tutti sono protagonisti e comparse. Si capisce qui come un meccanismo narrativo del genere, «generi impronte di mistero, echi che a volte rimbombano nell’aria.» Bolaño ha sostenuto che in generale occorre guardare alla sua opera come a un insieme, come se lui avesse scritto un unico vasto libro. Un romanzo totale, appunto. E allora, se è così, se le storie dei personaggi e i personaggi stessi si perdono sfumando nell’ipotesi, è perché l’autore non ci tiene a mettere il punto finale, a chiudere il filo della narrazione, ma, al contrario, preferisce intrecciarlo ad altri fatti per rilanciare nuove storie.

In questo gioco continuo di rimandi e di intrecci c’è un’aspirazione all’eternità.

E questo gioco è lo stesso che fa Sábato recuperando nei suoi tre romanzi, Il tunnel, Sopra eroi e tombe e L’angelo dell’inferno, situazioni, storie e personaggi. A scapito di tutti gli apocalittici che vanno decretandone da decenni la morte – un modo per sdoganarlo e renderlo accessibile a tutti –, il romanzo gode ancora ottima salute: non è però fatto da e per coloro che intendono far quadrare i conti.

Ernesto Franco chiude la sua ricognizione citando una frase di Sábato:

«Gli uomini scrivono finzioni perché sono fatti di carne, sono imperfetti. Un Dio non scrive romanzi» (tratto da El escritor y sus fantasmas, 1963, Seix Barral, Barcellona, 1979).

Frase che ricorda quella di Mario Vargas Llosa, Premio Nobel 2010: «Scrivere romanzi è un atto di rivolta contro Dio, contro quell’opera di Dio che è la realtà.»

A meno che la vita, la cosiddetta “realtà”, non sia tutta una finzione.

Ma questa è un’altra “storia”.

Gianluca Minotti

Da Sopra eroi e tombe…

Sopra eroi e tombe

Ernesto Sábato

Einaudi

€ 26

pp. XXVI – 584

I

Prendendo spunto dalla bellissima prefazione di Ernesto Franco a Sopra eroi e tombe, (1961), di Ernesto Sábato, pubblicato per la prima volta integralmente da Einaudi nel 2009 (collana “Letture Einaudi”), proviamo a tracciare un filo rosso che leghi lo scrittore argentino a un altro grande scrittore, Roberto Bolaño.

A proposito della speculazione filosofica di Sábato, la cui formazione è scientifica (si laureò in Fisica), Ernesto Franco scrive:

«Se si arriva alla scienza per ansia di verità e conoscenza, si può scoprire presto che i suoi strumenti danno accesso a verità parziali e che la totalità dell’uomo è conoscibile solo attraverso il contraddittorio percorso dell’arte, “perché i grandi problemi della condizione umana non sono adatti alla coerenza, ma sono accessibili unicamente a quell’espressione mitopoietica, contraddittoria e paradossale, affine alla nostra esistenza”.» (Il virgolettato è di Sábato).

Sopra eroi e tombe narra la storia di due ragazzi, Martin e Alejandra, i quali, come osservato nella prefazione, si trovano ma non si incontrano (il loro è piuttosto “un disincontro”).

Già nella prima pagina del romanzo, da un frammento di una notizia di cronaca nera, il lettore apprende della morte violenta, sacrificale di Alejandra.

Si potrebbe dunque pensare a un romanzo che tratta di amore e morte.

In parte sì, ma non soltanto.

Il narratore dà voce al dramma, alternando i piani temporali attraverso l’introduzione di un personaggio, Bruno, che sembra essere il vero narratore e depositario della storia. Le riflessioni di Bruno sono spostate in avanti nel tempo, in un tempo futuro in cui tutto è già accaduto e da dove egli misura lo scacco di Martin alternandolo a quello di decine e decine di altri personaggi, tutti “naufraghi” in una città, Buenos Aires, che è “un fenomeno psicologico”.

Scacco, ma anche scarto.

Scarto tra l’indole psicologica degli uomini e la concretezza di una realtà che si fa tale seguendo itinerari imponderabili per la ragione umana.

L’inutilità delle speranze di Martìn nasce da qui. Nasce e si fa intreccio narrativo grazie alla sapienza di Sábato nell’alternare i piani temporali, in modo che tutti i pensieri pensati da Martin nel presente (nel presente della sua storia/non storia con Alejandra) siano ridimensionati e spazzati via sia da quanto il lettore sa che accadrà (l’incipit/epilogo), sia dalle riflessioni ciniche, divertite, malinconiche di un Bruno che sembra essere il solo tra tutti i personaggi ad avere piena e dolorosa consapevolezza di come va il mondo.

Che sia lui, Bruno, la vera vittima di questa vicenda?

Lui che tra l’altro è stato il compagno della madre di Alejandra?

Ora, quello che ci interessa in quanto lettori (e aspiranti scrittori) è il tentativo attuato da Sábato di comporre una sorta di romanzo totale partendo dall’assunto che qualsiasi rappresentazione della realtà è per sua stessa ammissione incompleta e quindi non attinente alla verità.

A rigor di logica verrebbe da pensare che se Sábato voleva proprio scrivere un romanzo “totale”, da tutto doveva partire tranne che da un assunto del genere. Assunto che pare proprio inconciliabile con l’obiettivo.

Eppure non è così: Sábato l’ha pensata bene. Lui, che non a caso ha studiato fisica, non fa che applicare in letteratura il principio di indeterminazione di Heisenberg in base al quale, c’è poco da fare, la realtà è conoscibile soltanto per approssimazione:

«L’idea di storia totale è al lavoro. Intorno  Martìn e Alejandra germoglia un universo di storie e personaggi, ciascuno con il proprio linguaggio e, in fondo, con il proprio narratore. Perché è proprio quando la verità è assente e forse impossibile che la sua ricerca si fa incessante. Ogni personaggio ascolta o racconta la sua parte di storia e la storia di tutti passa di mano in mano come in un gesto infinito dove ogni persona cerca la propria verità in quella dell’altro. In questi personaggi della solitudine c’è come una comunione terrena.» (E. Sábato).

Ognuna delle vite raccontate in questo romanzo è una sorta di detrito: il lettore incontra uomini e donne senza sapere di preciso da dove provengono e verso quale destinazione sono diretti. Un po’ come accade nella vita reale. Ovverosia – e questo è un altro paradosso – quanto più si sgretola in arte la presunta linearità e organicità della realtà, tanto più essa si lascia per sottrazione disvelare.

Questo procedimento, e lo vedremo bene nel prossimo post, è portato alle estreme conseguenze da Roberto Bolaño soprattutto nella composizione dei suoi due grandi romanzi, I detective selvaggi e 2666. Romanzi in cui lo scrittore cileno, attraverso una continua depredazione, accumula tracce, segni, orme di un’umanità in cui tutti sono esuli, sradicati, dispersi, non si capisce se in continua fuga da se stessi o alla ricerca di. Fuga e ricerca che a conti fatti sono la stessa cosa.

To be continued… (QUI)

Gianluca Minotti