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A presto!

Mary

Il Deserto dei Tartari secondo Ennio Morricone

Ognuno ha il suo Deserto dei Tartari.

Questa è la versione “sonora” di Ennio Morricone:

Chirurgia creativa

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Segnaliamo la recente uscita in ebook  del racconto “Chirurgia creativa” di Clelia Farris, autrice già nota ai lettori di Literaid (QUI la recensione de “La pesatura dell’anima”).

 In una società in cui essere e apparire coincidono, Kieser, un ragazzo molto ambizioso, vorrebbe diventare “se stesso”.
Il compito è arduo, anche se Kieser dopo aver risposto a un annuncio di lavoro, diventa l’assistente personale di Vi, una studentessa di medicina che pratica la Chirurgia creativa su cani ed esseri umani.
Il nuovo formidabile racconto di Clelia Farris, proprio come un bisturi molto affilato, taglia e ricompone i confini tra i generi mescolando – nel suo stile originale – un futuro chirurgicamente “an-estetizzato”, lo steampunk elisabettiano e il surrealismo letterario della migliore fantascienza di James Ballard. Il risultato è una critica spiazzante e spassosa alla nostra società della bellezza ormai decaduta e disposta su un tavolo da laboratorio per essere fatta sapientemente a pezzi.

Il racconto è disponibile per la prenotazione su Amazon (http://www.amazon.it/dp/B00TGZTXEY) e  in versione ePub sul sito di Future Fiction (http://www.futurefiction.org/chirurgia-creativa/).

L’autrice

Clelia Farris è nata a Cagliari nel 1967, dove si è laureata in psicologia con una tesi di epistemologia. Nel 2004 ha vinto il premio Fantascienza.com con “Rupes Recta” e tre anni dopo ha vinto la prima edizione del Premio Odissea con “Nessun uomo è mio fratello”. Su Future Fiction sono usciti altri due romanzi, “La pesatura dell’anima” e “La giustizia di Iside”, ambientati in un Egitto alternativo. Ha pubblicato diversi racconti su “Fantasy Magazine” e “Robot”. Molto apprezzata sia dai lettori che dagli esperti del genere, Clelia Farris è considerata una delle migliori autrici di fantascienza italiana.

Una finestra sull’ignoto, di Antonio Tabucchi

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Una finestra sull’ignoto

Antonio Tabucchi

Perché era andato ad abitare lì? Non lo sapeva. O meglio, lo sapeva. A causa di un paesaggio che gli avrebbe fatto abbandonare l’inquietudine: grandi spazi, campagne, silenzi, le case di una volta, quando le case erano case, e dentro, con le persone, c’erano gli arnesi, gli attrezzi, tutto quello che serviva alla vita di ogni giorno e che si svolgeva intorno, vicino alle case dove si stava.
Però un giorno era venuto l’architetto, un suo amico, bravo architetto nelle grandi città dove si costruiscono grandi edifici di vetro e di acciaio, bellissimi a vedersi, e gli aveva detto: “Questa è una parete che ti nasconde il paesaggio, devi aprirci una finestra, sarà come un quadro dentro la tua casa, ma un quadro naturale nella cui cornice accogli la natura, perché la natura devi lasciarla entrare dalle finestre, non puoi vietarla con un muro”. E disegnando con il gesto delle braccia un’immaginaria finestra in quella parete di cucina dove c’erano le mensole con il sale il pepe e l’olio e le pentole appese a un chiodo, aveva continuato: “Via tutto questo vecchiume, lo sposti nella madia o nella credenza: sotto la finestra ti ci faccio una mensola di travertino, ci posi una ciotola, due mele o due arance, come se fosse un piccolo altare di campagna, un’umile natura morta che accompagna la maestosa umiltà del paesaggio”. E lui aveva osato replicare: “No, di travertino no, ti prego, non voglio del travertino in questa casa”.
“D’accordo”, aveva risposto l’architetto, “te lo faccio in gesso, e te lo dipingo in falso travertino, in modo che si veda bene che è un modesto gesso da contadini che vorrebbe essere travertino. E a questa finestra non ti ci metterò né ante né persiane, tanto è a nord e il sole, che qui è feroce, non ti batterà sul tavolo in maniera troppo violenta, ma potrai vedere il crepuscolo, perché d’estate, quando la notte scende e la calura si smorza, qui il cielo diventa cobalto, le chiome degli alberi si accendono di un verde insolito, hai notato che strano tipo di verde assumono questi alberi?, il verde è un colore composto, per farlo ci vogliono il giallo e l’azzurro, le foglie perdono l’azzurro e gli resta un giallo che le prime ombre notturne punteggiano di scuro, come se fossero mappe di ignote geografie. L’ideale sarebbe lasciarla, questa finestra, aperta all’aria e ai venti, come se il suo interno senza soluzione di continuità arrivasse nell’esterno e lo accogliesse. E tu bevendo un bicchiere e preparando la tua cenetta mentre ascolti musica, non hai più una parete davanti a te, ma l’apertura su ciò che ti circonda. Questo sarebbe l’ideale, ma anche i più alti desideri dell’architettura hanno un limite, anche qui arriverà l’inverno, ti entrerebbero la pioggia e il vento, e dunque, per ovviare, ci metterei un foglio di plexiglas, neppure due centimetri, ma così impercettibile come lo fanno ora che sembra aria, e ti assicuro che a volte sarai tentato addirittura di mettere la mano fuori per sentire il fresco della sera. A proposito, cosa ti piace ascoltare, mentre bevi un bicchiere di vino e ti prepari uno spaghetto, prima di affrontare la notte e i tuoi pensieri che sul foglio bianco si trasformano in parole?”.
“Dipende”, aveva risposto lui, “di solito Mozart, ma anche Chet Baker, soprattutto quando canta con quella sua voce roca e sussurrata, mi calma l’inquietudine, mi fa da ninnananna e mi tranquillizza, anche perché strascica talmente le parole che non le capisco, sembra una nenia antica, poi attacca con la tromba in sordina e ti porta via”.

Stava calando la sera, il cielo si era fatto di cobalto, gli alberi si stavano tingendo di giallo, come se il verde delle foglie fosse caduto all’improvviso. Lui si stava preparando uno spaghettino con dei pioppini che aveva raccolto sul tronco di un albero, con un pizzico di caprifoglio e pecorino locale, mise il disco di Chet Baker, alzò gli occhi e vide la casa dietro la sua. È una casa abbandonata, gli aveva detto il proprietario, una volta ci abitava una famiglia di contadini venuta ai tempi delle alluvioni del Polesine, ma erano morti tutti da anni.
Le finestre al piano superiore erano accese, una più grande e una piccola che doveva essere la finestra della soffitta. E sulla facciata una luce triangolare disegnava un’illuminazione di esatta geometria, come se vi fosse proiettata, perché lampioni non se ne vedevano. E sull’angolo della casa c’era una ruota appoggiata alla parete che sembrava la ruota posteriore di una bicicletta, ma era troppo grande per essere la ruota posteriore di una bicicletta. E poi gli parve di vedere un’ombra che svicolava dietro l’angolo della casa e entrava nel buio, ma di questo non fu sicuro, forse era stata la sua immaginazione. Allora si avvicinò alla finestra, e d’istinto tentò di mettere la mano fuori, come per fare un cenno a qualcuno che non c’era o toccare semplicemente l’aria dell’esterno. Ma la sua mano urtò contro il plexiglas. Vi appoggiò il palmo e subito lo ritirò. Sul plexiglas restò per un attimo l’impronta del suo sudore. Spense la musica e si mise in ascolto. Pensò a com’era strano guardare la realtà che ci circonda come se essa fosse a portata di mano e pensò che niente è a portata di mano, soprattutto quello che vedi, e che a volte ciò che è accanto è più lontano di quello che pensi. Pensò anche di telefonare al suo amico architetto, ma forse certe cose non si possono dire per telefono, è meglio scriverle, altrimenti sembrano insensate. Meglio un biglietto. Mi hai aperto una finestra sull’ignoto, gli avrebbe scritto. Ma lo avrebbe scritto domani.

tratto da “Racconti con figure”, Sellerio editore, Palermo, 2011

Lo Zen e l’arte di leggere e di tradurre

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È appena uscito per Einaudi, Centolettori. I pareri di lettura dei consulenti Einaudi 1941-1991.
Il libro, curato da Francesco Munari e con una prefazione di Ernesto Franco (attendo con ansia un libro che raccolga tutte le prefazioni di Ernesto Franco, possibilmente con una sua prefazione), “raccoglie 194 schede scritte da cento fra i più famosi lettori che l’Einaudi ha avuto nel corso degli anni”. Degli anni che vanno dal 1941 al 1991, naturalmente. Siccome però questa non è una recensione a Centolettori, non faccio i nomi dei lettori – ovvero, consulenti – qui presenti. E nemmeno quelli dei saggi e dei romanzi valutati. Però tre nomi li faccio. Due sono evidenti: Robert M. Pirsig e Gianni Celati. Il terzo è quello di Delfina Vezzoli, che tradurrà Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, poi pubblicato in Italia nel 1981. Non da Einaudi ma da Adelphi.
Non ho conosciuto né Pirsig né Celati. Di Celati ho letto e riletto molto, e ogni sua rilettura mi sconcerta e diverte. E mi dà speranza, anche se Celati non è uno che sembra avere una visione molto consolatoria della Letteratura. A cosa serva la Letteratura non è ancora molto chiaro. Comunque, quello che volevo dire è un’altra cosa: ho conosciuto Delfina Vezzoli. Era il 1990. Fu proprio lei a consigliarmi – fra tante altre cose – di leggere Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta.
Però, Gianni Celati, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, l’aveva letto prima di me. Anche prima di Delfina Vezzoli, forse.

ROBERT M. PIRSIG, Zen and the Art of Motorcycle Maintenance.
An Inqury into Values, William Morrow & Company, New York 1974.

Caro Giulio Einaudi,

ti scrivo in merito alla traduzione del libro di Pirsig Zen and the Art of Motorcycle Maintenance.
Dopo aver sentito che il libro era stato scartato su parere di Roscioni avevo deciso di protestare. Ma poi non l’ho fatto perché mi tocca sempre la parte del rompicoglioni nella vostra casa editrice, e così preferisco star zitto.
Adesso sento che ci sono altri pareri favorevoli e aggiungo il mio.
Mi sembra un libro fuori dell’ordinario perché non è un romanzo ma un manuale di sopravvivenza, che si può leggere tutto d’un fiato, per l’idea meravigliosa del racconto al figlio di queste due arti: l’arte del pensare filosofico e l’arte della manutenzione della motocicletta, l’arte antica della saggezza e quella moderna del dover fare i conti con la tecnologia.
In America questo libro ha avuto un successo enorme ed è forse l’unico libro che conosco che salta al di là dei problemi della controcultura per portarci su un piano moderno e postmoderno, che è appunto quello del rapporto positivo con la tecnologia.
È un libro che mi piace e mi affascina, ho già suggerito a Pennati un traduttore e spero che vada in porto.
Saluti e a presto

tuo Gianni Celati

Febbraio 1979

Inaspettatamente

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INASPETTATAMENTE

“Poi un giorno, poco prima di cena, quando ero già nella casa dove vivo adesso, inaspettatamente, è squillato il telefono. Ho tirato su la cornetta. Ho ascoltato. Una voce mi stava dicendo che esisteva al mondo un editore che intendeva pubblicare il mio libro. Io continuavo ad ascoltare come se la voce stesse parlando di un altro, assente. Dopo tutti quegli anni con la testa nel sacco e tutte quelle bastonate, succedeva di punto in bianco così, come se niente fosse, a quarantaquattro anni passati. Io ascoltavo la notizia di quella cosa che ormai non speravo più succedesse come una cosa che sapevo da sempre sarebbe successa e che quindi non riusciva neppure a stupirmi, rendeva solo più inspiegabile, stupido, inutile, irreparabile tutto quello che era accaduto, tutto il dolore che c’era stato… La voce era di Agnese Incisa, che stava telefonando dalla Bollati Boringhieri. Avevo mandato anche a quell’editore il manoscritto di ‘Clandestinità’, per posta, da sconosciuto, Era successo che una notte, durante una delle mie camminate, ero passato di fronte a una libreria chiusa, dalle luci accese e dalla saracinesca a maglie abbassata. Mi ero fermato a guardare le copertine dei libri appena usciti. Avevo visto che la Bollati Boringhieri stava varando una nuova collana di narrativa. Io allora non sapevo niente, non sapevo neanche chi era Giulio Bollati, che veniva dalla Einaudi dove era stato il braccio destro di Giulio Einaudi, che aveva acquistato la precedente Boringhieri, casa editrice specializzata in testi scientifici e psicanalitici. Così, dopo avere a lungo esitato perché ero ormai troppo stanco di spedire manoscritti e di prendere porte in faccia, proprio come un ultimo tentativo, un ulteriore gesto inutile, faticoso e senza speranza, lo avevo alla fine spedito anche a loro. Adesso la voce mi stava dicendo che il libro era piaciuto anche a Giulio Bollati, che lo voleva inserire nella nuova collana di narrativa appena avviata. Mi stava dando appuntamento a Torino per conoscerci di persona. Ci siamo salutati. Ho messo giù il telefono, sono andato in cucina. – Che telefonata lunga! Chi era? – mi ha chiesto Renata, che aveva già messo la pasta in tavola, e coperto il mio piatto con un altro piatto perché non si raffreddasse. Gliel’ho detto. Ci siamo guardati in silenzio. Anche lei non sapeva che cosa dire. Ci siamo messi a mangiare.”

Antonio Moresco, “Lettere a nessuno”

Morte di un uomo felice

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Giorgio Fontana

Morte di un uomo felice

Sellerio

Giorgio Fontana è uno dei pochi “giovani” scrittori dotati di sensibilità, voglia di scavare, approfondire, analizzare che la scena editoriale italiana ci ha offerto in questi anni pieni di eccessi e superficialità.

Questo romanzo edito da Sellerio rappresenta l’ulteriore conferma del valore di Fontana, finalmente riconosciuto anche con un premio importante quale il Campiello.

La storia corre su due piani: da un lato c’è Ernesto Colnaghi, giovane marito e padre che vuol agire con entusiasmo contro i fascisti negli anni della seconda guerra modiale; dall’altro troviamo Giacomo Colnaghi, suo figlio, magistrato cattolico, impegnato contro il terrorismo degli anni ottanta.

Affrontando, su piani diversi, temi scottanti e ancora non del tutto risolti, la lettura di questo romanzo ci invita a riflettere su svariati argomenti e a fare confronti con l’odierna situazione nazionale. Molte le similitudini, molti i dubbi e le domande sugli eventi e le cause.

Ciò che maggiormente colpisce, però, è la domanda cardine dell’agire, dell’indagare di Colnaghi figlio.  Capire le cause può e deve prevenire atti sanguinosi e destabilizzanti. Eppure ciò non avviene.  Doni, il magistrato amico di Giacomo Colnaghi, afferma che compito della giustizia è soprattutto punire. Il resto appartiene ai preti…

Fontana ci regala brani intensi, drammatici, eppure non mancano squarci di cielo, afflati di gioia e di speranza nei protagonisti, alti esempi di fedeltà a un ideale forse troppo alto e puro ma che ancora oggi sprona uomini di valore a dare il meglio e a provare un cambiamento.

Mary Zarbo

QUI altri articoli su Fontana apparsi su questo blog.

QUI il sito dell’autore.

 

 

 

Scrivere

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E così vorresti fare lo scrittore?

Charles Bukowski
 
E così vorresti fare lo scrittore?
Se non ti esplode dentro
a dispetto di tutto,
non farlo
a meno che non ti venga dritto
dal cuore e dalla mente e dalla bocca
e dalle viscere,
non farlo.

Se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo.

Se lo fai solo per soldi o per fama,
non farlo
se lo fai perché vuoi
delle donne nel letto,
non farlo.

Se devi startene lì a
scrivere e riscrivere,
non farlo.
Se è già una fatica il solo pensiero di farlo,
non farlo.
Se stai cercando di scrivere come qualcun altro,
lascia perdere.

Se devi aspettare che ti esca come un ruggito,
allora aspetta pazientemente.
se non ti esce mai come un ruggito,
fai qualcos’altro
se prima devi leggerlo a tua moglie
o alla tua ragazza o al tuo ragazzo
o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno,
non sei pronto.

Non essere come tanti scrittori,
non essere come tutte quelle migliaia di
persone che si definiscono scrittori,
non essere monotono o noioso e
pretenzioso, non farti consumare dall’autocompiacimento.

Le biblioteche del mondo
hanno sbadigliato
fino ad addormentarsi per tipi come te
non aggiungerti a loro
non farlo
a meno che non ti esca
dall’anima come un razzo,
a meno che lo star fermo
non ti porti alla follia o
al suicidio o all’omicidio,
non farlo
a meno che il sole dentro di te stia
bruciandoti le viscere,
non farlo.
Quando sarà veramente il momento,
e se sei predestinato,
si farà da sè e continuerà finchè tu morirai o morirà in te.

Non c’è altro modo
e non c’è mai stato. 

Roberto Bolaño: Per sempre sia la sua scrittura

Roberto B.

Roberto Bolaño Ávalos:

Santiago del Cile, 28 agosto 1953– Barcellona, 15 luglio 2003

 

«L’unica scena possibile è quella del tipo che corre lungo il sentiero nel bosco. Qualcuno guarda a sprazzi una camera da letto azzurra. Adesso ha ventisette anni e sale sull’autobus. Fuma, ha i capelli corti, blue-jeans, maglietta scura, giacca con cappuccio, stivali, occhiali da ispettore di polizia. È seduto vicino al finestrino; accanto a lui un operaio che torna dall’Andalusia. Sale su un treno alla stazione di Saragozza, si guarda alle spalle, la nebbia copre fino alle ginocchia un controllore ferroviario. Fuma, tossisce, appoggia la fronte contro il finestrino dell’autobus. Adesso cammina in una città sconosciuta, in mano regge la borsa blu, ha il colletto della giacca alzato, fa freddo, ogni volta che respira sprigiona una boccata di fumo. L’operaio dorme con la testa appoggiata su una spalla. Si accende una sigaretta, guarda la pianura, chiude gli occhi. La successiva scena è gialla e fredda e nella colonna sonora svolazzano alcuni uccelli. (A titolo di battuta personale, lui dice: sono una gabbia; poi compra sigarette e si allontana dall’obiettivo). È seduto in una stazione ferroviaria all’imbrunire, risolve un cruciverba, legge la cronaca estera, segue il volo di un aereo, si inumidisce le labbra con la lingua. Qualcuno tossisce nel buio, una mattina chiara e fresca dalla finestra di un albergo, lui tossisce. Esce in strada, alza il collo della giacca blu, abbottona tutti i bottoni meno l’ultimo. Compra un pacchetto di sigarette, ne prende una, si ferma sul marciapiede accanto a una vetrina di una gioielleria, si accende la sigaretta. Ha i capelli corti. Cammina con le mani infilate nelle tasche della giacca, la sigaretta gli penzola dalle labbra. La scena è un primo piano del tipo con la testa appoggiata al finestrino. Il resto sono corridoi minuscoli che raramente portano da qualche parte. Il vetro è appannato. Adesso ha ventisette anni e scende dall’autobus. Avanza per una strada solitaria».

Questo brano è tratto da Anversa, il primo romanzo scritto da Roberto Bolaño nel 1980, a Barcellona, ma pubblicato soltanto nel 2002.

«Ho scritto questo libro per me stesso, e neppure di questo sono troppo sicuro. Per molto tempo sono state solo pagine sparse che rileggevo e forse correggevo convinto di non avere tempo. Ma tempo per cosa? Ero incapace di spiegarlo con precisione. Ho scritto questo libro per i fantasmi, che sono gli unici ad avere tempo perché sono fuori dal tempo».

Anversa si chiude con un post scriptum che recita:
«Di quanto ho perso, irrimediabilmente perso, desidero recuperare solo la disponibilità quotidiana della mia scrittura, linee capaci di prendermi per i capelli e tirarmi su quando il mio corpo non vorrà più reggere. (Significativo, ha detto lo straniero). In modo umano e in modo divino. Come quei versi di Leopardi che Daniel Biga recitava su un ponte nordico per armarsi di coraggio, così sia la mia scrittura».

Il commesso

 

Il commesso
Bernard Malamud
Trad. Giancarlo Buzzi
Minimum fax

Il mio amico Gianluca, con cui condivido questo blog e la passione per i libri, mi ha spinto a scrivere qualcosa sull’ultimo romanzo che ho letto, Il commesso, consigliatomi dal mio amico Amedeo della libreria Capalunga.

Ci sono libri che sembrano specchi, capita anche con le poesie. Le parole che leggi ti riportano ricordi o sembrano descrivere il tuo stato attuale, magari dandoti una visione d’insieme più chiara e perfino delle soluzioni.
Per me, leggere Il commesso è stato un viaggio nell’animo umano, anche nel mio.

Riporto dalla quarta:
La storia è quella di Morris Bober, umile commerciante ebreo che nel cuore di Manhattan conduce una vita misera e consumata dagli anni, e di Frank Alpine, un ladruncolo di origini italiane, deciso a riscattarsi e diventare un uomo onesto e degno di stima, aiutando Morris al negozio. Tuttavia il giovane Frank non resisterebbe dietro al bancone, sempre più assediato dalla concorrenza, se non si innamorasse di Helen, la figlia di Morris. La vicenda è straordinariamente intrecciata intorno alle emozioni, ai segreti, al destino di queste tre esistenze.

La storia del povero, frustrato e sfortunato Bober va a intrecciarsi per un episodio di rapina a quella di Alpine. Storia triste ma di riscatto quella di entrambi, a cui prendono parte altri personaggi della famiglia e del quartiere.

Un episodio tragico cambia la vita, si sa, ma qui in special modo cambierà in meglio, non tanto dal punto di vista finanziario quanto quello morale, quella del commesso.

Malamud dipinge perfettamente l’atmosfera degli anni ’50, gli umori, le varie tipologie umane, rendendoli immortali. Una scrittura precisa in cui sono gli stessi personaggi, coi loro pensieri narrati, a offrirci riflessioni, non solo morali. Scrittura che non disdegna anche dei tratti umoristici e ironici.

Mary Zarbo